Esteri
Medio Oriente: il fragile cessate il fuoco in Libano regala una speranza alla pace
Redazione
Il cessate il fuoco in Libano, tra Israele ed Hezbollah, raggiunto dopo un faticoso lavoro diplomatico (soprattutto da parte degli Stati Uniti) è solo un primo passo verso una stabilizzazione della situazione nello specifico quadrante del conflitto in Medio Oriente. Un conflitto che, visto il logorante andamento sul terreno, ha pesantemente condizionato le capacità militari dei duellanti.
Ma la prosecuzione del silenzio delle armi nel tempo, cioè oltre i sessanta giorni previsti nell'accordo, sarà condizionata da un insieme di fattori che devono essere tenuti in considerazione.
Come è sempre accaduto, l'annuncio del cessate il fuoco è stato celebrato dalla parte militarmente ''soccombente'', cioè Hezbollah, come fosse una vittoria, con la gente mandata nelle strade a sbandierare i gialli vessilli del movimento, quasi che Israele si fosse arreso allo strapotere militare del movimento islamista vicino a Teheran.
Non è proprio così, ma Hezbollah, alle corde militarmente, ha bisogno di mostrarsi alla sua gente come il Davide che ha resistito a Golia. Solo che il prezzo è stato altissimo, in termini politici e di leadership, visto che Israele, con i suoi attacchi mirati, ha ripetutamente depotenziato politicamente il movimento, decapitandone i vertici non appena i nuovi prendevano il posto dei vecchi, uccisi.
Ma anche Israele è uscito logorato con il conflitto scatenatosi sul confine libanese, perché, a dispetto di raid e azioni sul terreno, Hezbollah ha continuato a martellare con il lancio di centinaia di razzi e droni che, sebbene non abbiano fatto i danni (o le stragi) sperati, ha fiaccato la resistenza psicologica della gente, costretta a lasciare il nord del Paese per mettere chilometri da sé e la morte che arriva dal cielo.
L'accordo del cessate il fuoco in ogni caso consente alle parti di tirare il fiato, e, nel caso di Israele, come ha detto il primo ministro Benjamin Netanyahu nel discorso rivolto alla sua gente, di ricostruire gli arsenali impoveriti da una guerra lunghissima, combattuta in modo feroce, costante, durissimo, che non poteva essere fermata se non con una tregua o con la vittoria.
La prima ipotesi oggettivamente percorribile; la seconda, con tempi insopportabili anche per la formidabile macchina bellica di Gerusalemme.
Ora, tacendo (per quanto è presto ancora per dirlo) le armi lungo il confine di quello che era un tempo il Paese più stabile e affidabile del Medio Oriente grazie ad un delicatissimo equilibrio istituzionale tra le confessioni religiose, Netanyahu può concentrare gli sforzi bellici del Paese in un'unica direzione: sconfiggere Hamas ed estirparne la struttura militare e amministrativa da Gaza. Quattordici mesi di guerra non hanno risolto il problema di Israele e ora, potendo redistribuire le sue forze armate principalmente contro Hamas, Netanyahu spera di venirne a capo e soprattutto di risolvere il delicatissimo nodo degli ostaggi, anche se il numero di quelli ancora vivi sembra assottigliarsi con il passare dei giorni.
Il cammino è ancora lungo. Soprattutto quello della pace, che non può non passare dall'evitare che la popolazione di Gaza continui a pagare colpe di altri. L'assunto che i gazawi siano complici di Hamas è un artificio diplomatico per consentire a Israele di continuare a martellare intere zone e quartieri che potrebbero pure essere sedi di postazioni del movimento, ma per questo devono essere rase al suolo, nella consapevolezza che quando cadono razzi e proiettili non chiedono la carta d'identità a chi viene colpito.