Cultura

L’Inno di Mameli in saldo: 35 euro secondo Giuli

Redazione
 
L’Inno di Mameli in saldo: 35 euro secondo Giuli

Nel grande teatro dell’assurdo che spesso è la politica italiana, l’ultimo atto si è consumato tra i velluti rossi della Fenice e i corridoi marmorei del Ministero della Cultura. Protagonista, manco a dirlo, il titolare del dicastero, Alessandro Giuli, già noto per l’eloquio magniloquente e l’indomita passione per simboli e liturgie, che questa volta si è superato, assegnando alla cultura un valore simbolico estremamente preciso: 35 euro lordi a testa.

L’Inno di Mameli in saldo: 35 euro secondo Giuli

Per celebrare la Festa della Repubblica, il Ministero ha infatti chiesto all’orchestra e al coro del prestigioso teatro veneziano di suonare e cantare l’Inno di Mameli, da registrare in video e trasmettere su Rai1 in prima serata. Una proposta nobile, direte. Peccato che il compenso previsto fosse inferiore a quello di una comparsa in un cinepanettone, e il tono dell’invito più simile a quello di una leva obbligatoria che a una reale richiesta di collaborazione professionale.

Il personale della Fenice – 145 tra musicisti e coristi – ha declinato con fermezza. Non tanto per orgoglio, quanto per dignità. D’altronde, suonare l’Inno d’Italia non è un karaoke improvvisato da bar di provincia, ma un’esecuzione che richiede prove, coordinamento, tempo e professionalità. Due giornate intere di lavoro per una somma che, al netto delle ritenute, sfiorava appena la soglia del simbolico. Della serie: tanto valeva chiedere di farlo gratis, magari per onor di Patria avrebbero anche accettato. Di fronte a tal oltraggio, il buon Giuli ha deciso di indossare l’elmetto dell’offeso. E, con tono da retore ferito nell’onore, ha dichiarato alla stampa: “L’Italia è piena di italiani disposti a cantare gratis l’Inno di Mameli. Io stesso l’ho fatto e lo rifarei.”

Ecco servito il capolavoro retorico: chi rifiuta 35 euro per suonare l’Inno sarebbe un ingrato, forse addirittura un disfattista, o peggio, uno che non ama la propria nazione. Insomma, artisti, fatevi un esame di coscienza: non suonate per la paga, suonate per l’Italia. A nulla sono servite le proteste dei sindacati. Marco Trentin, della Cgil, ha ricordato al ministro che il lavoro si retribuisce, e che esistono contratti da rispettare, anche quando si tratta di arte.

Ma nella logica onirico-burocratica del ministero, l’Inno doveva essere registrato, mandato in onda, ma senza disturbare troppo il bilancio. E chi osa rifiutare, viene tacciato di “distonia”, parola colta che però qui suona più come un’allergia al buon senso. Del resto, nel mondo incantato del Ministro, l’Inno nazionale è una sorta di pozione magica che può essere evocata a comando da chiunque – il panettiere, l’imbianchino, il posteggiatore – purché abbia fiato in gola e amor di patria a sufficienza. Il fatto che si tratti di un’esecuzione professionale, da registrare e mandare in onda in prima serata, pare dettaglio trascurabile.

Tanto, l’arte non sfama, non produce, non si contabilizza. È aria fritta, decorazione, passatempo. Una cosa da fare per spirito civico, non per vile denaro. Incalzato dalle critiche, il ministro ha provato a rimediare arrampicandosi sugli specchi. Prima ha detto che l’offerta era di 45mila euro (notizia poi smentita proprio da Trentin). Poi ha invocato una “integrazione” dei fondi. Infine è stato il sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro, a sborsare 20mila euro dal fondo del Comune, come a dire: se la Repubblica non paga l’inno, lo fa il municipio. Alla fine, si è trovato un compromesso. L’orchestra e il coro suoneranno, l’Inno andrà in onda su Rai1, e l’orgoglio nazionale sarà salvo.

Ma il danno d’immagine, quello sì, resta. Perché quanto accaduto non è solo una figuraccia, è lo specchio di un pensiero pericoloso e radicato: quello per cui la cultura debba ringraziare, accontentarsi, piegarsi al volontariato in nome di un patriottismo selettivo. Una cultura che deve essere visibile solo quando fa scena, ma invisibile quando chiede riconoscimento. E che il ministro della Cultura – colui che dovrebbe difendere e promuovere l’arte – sia il primo a svilirla economicamente è un paradosso degno di nota. Giuli non è un outsider capitato per caso: è uomo di lettere, intellettuale e anche giornalista. E proprio per questo, l’uscita suona più grave.

Perché sa bene cosa significa lavorare nella cultura. O dovrebbe saperlo. Ma forse è proprio questa la chiave: una cultura che si celebra a parole, ma si mortifica nei fatti. Una cultura ridotta a orpello cerimoniale, a fondale buono per le parate, ma senza diritto alla dignità professionale. Una cultura da museo, non da vivere. Da commemorare, non da finanziare. Così, mentre da un lato si moltiplicano gli appelli per investire nella bellezza, nella musica, nel teatro, dall’altro si offrono compensi da teatro delle marionette. E guai a rifiutare: si rischia l’accusa di alto tradimento. Alla fine l’Inno si farà, l’Italia commossa ascolterà, e molti non sapranno mai del teatrino andato in scena dietro le quinte. Forse il problema non è la cultura. Forse, in fondo, è solo un malinteso semantico. Perché se per noi cultura è studio, dedizione, professionalità e rigore, per altri è una parola buona per le inaugurazioni, per i selfie, per i comunicati stampa imbellettati.

E in questo senso, ha perfettamente senso offrirla per 35 euro. È proprio il suo valore simbolico: poco, pochissimo, quasi niente. Ma resta una domanda: che Paese siamo diventati, se l’arte deve elemosinare rispetto dal Ministero che dovrebbe proteggerla? Un Paese che celebra la cultura con i selfie e la calpesta coi bilanci. Che pretende devozione e offre in cambio solo simboli vuoti. Un Paese in cui anche l’Inno nazionale diventa oggetto di contrattazione da bancarella. E dove 35 euro bastano per ritenersi patrioti. Ma solo se si tace, si canta e si incassa.

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