Quella andata in onda ieri sera, su Retequattro, nel talkshow condotto da Bianca Berlinguer, con un violentissimo scontro verbale tra gli ospiti della trasmissione, sul tema della situazione in Medio Oriente e, quindi, dell'offensiva israeliana a Gaza City, è stata la rappresentazione plastica di come, ormai, su questa argomento, sia stata superata la sottilissima linea di confine tra la giusta e motivata riprovazione per le azioni di Israele e la manifestazione di un odio acritico, dove tutto si mischia, in un magma di insulti, prevaricazioni e anche aggressioni fisiche, vere o solo minacciate.
Medio Oriente: il sottile confine tra una giusta condanna e le manifestazioni di odio
Protagonisti della trasmissione sono stati il comico Enzo Iachetti ed Eyal Mizrahi, presidente della Federazione Amici di Israele, con il contorno delle invettive fuori controllo di Mauro Corona. Un confronto che ha acceso subito gli animi, divisi dall'analisi dell'evidenza della realtà - il prezzo altissimo pagato dai gazawi - e le possibili motivazioni che l'hanno determinata.
Mettendo da parte la geopolitica della regione, è evidente che ormai il clima che si è creato, in Italia e altrove, è quello di un fronte pressoché compatto che vede in Israele uno Stato che, sulla scorta di un'aggressione subita, ritiene di essere autorizzato a compiere ogni atto, anche il più sanguinoso, che possa garantirgli la sicurezza, di oggi e soprattutto di domani.
Una aspirazione che sarebbe normale, ma che, quando si parla di Israele, conduce a pensieri che spesso divengono verità assolute agli occhi di chi le esplicita.
Ieri è accaduto proprio questo, perché sia Iachetti che Mizrahi hanno mostrato le loro verità, ma lo hanno fatto trascendendo o sostenendo tesi talmente assolutorie, talmente salvifiche, da dimostrarsi solo preconcette e, per ciò stesso, condannabili.
Il numero dei morti della Striscia è spaventoso, perché anche solo una vittima innocente, che paga colpe di altri, è un tributo pesantissimo. Ma è anche dovere di chi dice certe cose, se le afferma in televisione, dove il filtro dovrebbe essere in mano al conduttore, sfrondarle dalla propaganda.
Che a Gaza City a morire sono i civili è una evidenza che suona orrore per chi ha un'anima e un cervello, ma dire che nella Striscia i guerriglieri di Hamas siano un elemento di contorno, comparse in una drammatica rappresentazione scenica, è sbagliato.
Ieri Mizrahi ha cercato di dare, di quanto accade, una immagine giustificazionista, sostenendo, ad esempio, che prima di abbattere un grattacielo a Gaza City, gli israeliani lanciano avvisi di evacuazione. Che è cosa vera, ma che certo non può trovare un senso nella volontà di Netanyahu e dei suoi ministri di desertificare una città che sino a ieri aveva un paio di milioni di abitanti.
Che non sono solo numeri, ma carne, ossa, cuori, vite.
Allo stesso modo, però, si deve evitare di non cadere in una generalizzazione, quella che porta a condannare tutti per decisioni che sono presi da poche persone, con una nazione - Israele - che vive la dicotomia tra una società liberale e libertaria e una minoranza (la magmatica alleanza tra estrema destra, ultra-religiosi, coloni messianici) che non rappresenta il Paese, ma solo una sua componente, ma che oggi è al potere.
Se solo una volta al giorno Netanyahu e la sua allegra combriccola ricordassero quel che dice il Talmud, che chi salva una vita salva il mondo intero, non godrebbero della distruzione di una città e della sua gente.
Perché la mishnà non dice che la vita da salvare deve essere di un israeliano, ma una vita, solo e semplicemente.
Perché la vita è sacra.
La condanna contro l'attacco di Hamas del 7 ottobre s'è andata affievolendo davanti alla durissima risposta di Israele - che ancora cerca i suoi ostaggi, vivi o morti -, da condannare dal punto di vista umano, ma che, lo dice la storia, non poteva non arrivare. Certo, con modi, strumenti e obiettivi diversi, ma si sapeva sarebbe arrivata.
Oggi dirsi con la Palestina è un fatto morale, ma, se è vero che i dettagli contano, non si può consentire che la protesta si traduca in intolleranza e, quindi, a qualcosa che galleggia a mezz'aria tra l'esecrazione e un sentimento che si basa sulla razza, sulla religione, perché è di questo che stiamo parlando.
Tutti hanno diritto di dire la loro, sempre che restino nel perimetro della legalità, magari non del buonsenso. Ma impedirgli di parlare - come è accaduto ad un docente universitario israelita dell'università di Pisa, cui è stato impedito di intervenire ad un evento pubblico, persino picchiandolo - è il primo passo verso una dimensione che vorremmo: avere paura a dire quel che si pensa o magari di indossare la kippah o una kefya.