Esteri

Giappone: la piaga della solitudine spinge gli anziani a "volere" il carcere

Barbara Leone
 

Nel capolavoro senza tempo "Viaggio a Tokyo" di Yasujiro Ozu, una coppia di anziani lascia il proprio tranquillo villaggio per riunirsi ai figli nella frenetica capitale giapponese.
Ma il sogno di un abbraccio familiare si trasforma in un’amara disillusione: i figli, travolti dal ritmo caotico della metropoli, non trovano spazio per i genitori. Sul viaggio di ritorno, la tragedia: la madre muore, lasciando il padre a confrontarsi con una solitudine che sembra senza via d’uscita.

Giappone: la piaga della solitudine spinge gli anziani a "volere" il carcere

Era il 1953, ma quel ritratto malinconico risuona ancora oggi, in un Giappone alle prese con una crisi sociale che strazia il cuore. In un Paese che invecchia a una velocità senza precedenti, la solitudine è diventata una condanna silenziosa. Per alcune donne anziane, perfino il carcere è meglio di una vita senza legami né speranze.

Dietro le mura rosa pallido della prigione femminile di Tochigi, a nord di Tokyo, il suono delle sbarre si intreccia ai passi incerti di residenti con deambulatori, alle mani gentili delle guardie che distribuiscono medicine e sostengono le detenute nel loro lento incedere.
Qui, per molte, il carcere non è più una punizione: è un rifugio. Akiyo, 81 anni, lo dice senza esitazioni: "Se avessi avuto una vita stabile, non sarei mai finita qui. Ma vivere in prigione è più sicuro per me", dice alla CNN l’anziana donna, che conosce fin troppo bene il peso dell'isolamento e della povertà: questa è la sua seconda pena in prigione, dopo essere stata incarcerata in precedenza a 60 anni per furto di cibo. Come lei, tante altre donne scelgono consapevolmente di delinquere per garantirsi una cella, un pasto caldo e, soprattutto, una comunità. La prigione diventa il rifugio di chi, fuori, non trova più nulla. "C’è persino chi pagherebbe per vivere qui per sempre", confessa un'agente del carcere femminile.

Sì, perché fuori il mondo sembra sempre più spietato. Ogni anno, circa 68.000 anziani giapponesi muoiono soli nelle loro case, i loro corpi scoperti solo giorni o settimane dopo. Un fenomeno che in Giappone chiamano “kodokushi”, la "morte solitaria", ormai una piaga nazionale. Le previsioni sono desolanti: entro il 2050, una famiglia su cinque sarà composta da un anziano che vive solo. Questo dramma, alimentato dalla bassa natalità, dall’invecchiamento della popolazione e dalla disillusione verso il matrimonio, ha radici profonde. Nel 2023, per la prima volta in 90 anni, i matrimoni sono scesi sotto le 500.000 unioni, mentre il tasso di natalità continua a calare. Oggi, il 29,1% della popolazione giapponese ha più di 65 anni, e gli over 80 rappresentano oltre il 10%. Ma la crisi demografica non si riflette solo nei numeri. Le carceri giapponesi ospitano sempre più anziani: nella prigione di Tochigi, il 20% delle detenute ha superato i 65 anni. Molte, come Yoko, 51 anni, non hanno una casa né una famiglia ad aspettarle fuori. "Alcuni finiscono i soldi e commettono reati apposta per tornare in prigione", racconta. Ma dietro le sbarre, non c’è solo sopravvivenza. Per Yoko, che ha ottenuto una qualifica infermieristica durante la detenzione, il carcere è diventato un luogo di riscatto: ora assiste le compagne più anziane, aiutandole a lavarsi, vestirsi e muoversi.

Mentre le prigioni si riempiono di capelli bianchi, le autorità giapponesi cercano soluzioni. Il Ministero del Welfare ha lanciato programmi di supporto, come centri comunitari e sussidi per l’alloggio. Ma la velocità con cui la crisi evolve supera ogni intervento. E così, dietro le mura del carcere, il tempo sembra fermarsi per donne come Akiyo, che trovano nelle sbarre una protezione dal mondo esterno, dove la vera condanna si chiama solitudine. Nonostante tutto, c’è chi lotta per restare in piedi. Il lavoro, per molti anziani, è l’ultima ancora di salvezza. Il 70% degli over 65 giapponesi vuole continuare a lavorare anche dopo gli 80 anni, vedendo nel lavoro non solo una necessità economica, ma anche un antidoto contro l’isolamento. Eppure, per chi è malato, povero o solo, questa scelta non esiste. E alla fine per alcuni c’è una sola, paradossale “via d’uscita”: il carcere. Qui, dietro le sbarre, in molti trovano quello che il mondo fuori ha dimenticato: una mano tesa, un sorriso, e la possibilità di non essere invisibili.

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