È notte fonda in Malesia. Una di quelle notti umide e spesse, dove anche la luna sembra pesare sulle spalle della foresta. Da un lato della strada, una madre. Dall’altro, suo figlio. Un piccolo elefante, ancora impacciato nel portamento, ma saldo nell’amore che lo legava a quella presenza materna, immensa e gentile. Poi, il buio si fa luce violenta. Luci artificiali. Veloci. Rumorose. E in un attimo, la vita ha smesso di battere. Un camion carico di pollame ha investito quel cucciolo, sbucato dalla vegetazione per raggiungere sua madre. Aveva cinque anni, 700 chili di peso e il cuore ancora pieno di sogni. Non ce l’ha fatta.
Quando una madre piange
Per molti è solo un altro tragico incidente. Per altri, l’ennesimo esempio della crescente frattura tra uomo e natura.
Ma per quella madre, un’elefantessa adulta, è stato un colpo al cuore. Uno di quelli da cui non ci si riprende. Le immagini diffuse nelle ore successive raccontano molto più di mille parole: si avvicina al corpo senza vita del suo cucciolo, lo tocca, cerca disperatamente di sollevare il camion con la proboscide. Spinge con il capo, quasi a volerlo spostare con la forza del desiderio.
Come se bastasse volerlo, per riportare indietro il tempo. Come se l’amore potesse davvero vincere la morte. Non è bastato. E il cucciolo è rimasto lì, senza vita, schiacciato sotto il peso dell’indifferenza umana. I soccorsi sono arrivati solo all’alba. Nel frattempo, l’elefantessa è rimasta accanto al suo cucciolo, rifiutandosi di allontanarsi. Ha danneggiato il camion, si è ribellata ai ranger, ha resistito a ogni tentativo di convincerla a lasciare il luogo. Non voleva abbandonarlo. Come farebbe qualsiasi madre. Alla fine, i funzionari del Dipartimento per la fauna selvatica hanno dovuto sedarla per portarla via, lontano dalla strada, in una zona protetta della foresta. Ma non c’è dose di anestetico che possa spegnere un dolore così.
Una scena straziante, che dovrebbe sollevare in tutte le coscienze una domanda scomoda: siamo davvero disposti ad accettare che anche gli animali provano emozioni? Che amano, ricordano, soffrono? Perché spesso, nel nostro mondo iperrazionale, tendiamo a relegare gli animali a istinti e automatismi. Ma le neuroscienze comportamentali ci dicono altro. E la vita stessa, nei suoi gesti più naturali, lo dimostra ogni giorno. Ecco perché quel che è accaduto in Malesia ci riguarda. Non solo perché è l’ennesimo caso di fauna selvatica travolta da una strada che attraversa un habitat, ma perché ci costringe a guardare in faccia il dolore animale. Un dolore muto, certo. Ma non per questo meno reale. Anzi, forse più puro, perché privo delle sovrastrutture emotive e delle difese che noi esseri umani impariamo a costruire. L’elefantessa non ha chiesto aiuto. Non ha invocato vendetta. Non ha accusato nessuno. Ha semplicemente provato, con tutta se stessa, a salvare ciò che amava.
E quando ha capito che non c’era più nulla da fare, ha scelto di restare. Non è un’eccezione. Ogni giorno, nel silenzio delle foreste, delle campagne, degli allevamenti, milioni di animali provano emozioni che raramente siamo disposti a riconoscere. Soffrono la fame, il freddo, la separazione, la solitudine. Cercano calore, affetto, sicurezza. E quando perdono un figlio, lo piangono. Lo fanno le elefantesse, le mucche, le pecore, le scrofe…
Lo fanno anche se noi continuiamo a raccontarci che “sono solo animali”. Ma se provassimo per un momento a guardarli con occhi diversi? Se smettessimo di misurare la dignità del dolore con la scala della nostra specie? Forse, capiremmo che non siamo soli. Che condividiamo questa Terra con esseri viventi capaci di sentimenti profondi. E che proprio da loro potremmo imparare qualcosa sul significato dell’amore, della perdita, della fedeltà.
Questo incidente non è il primo, e purtroppo non sarà l’ultimo. Ma può, deve, essere un punto di partenza per una riflessione più ampia: sul nostro rapporto con la fauna, sull’urbanizzazione cieca, sulla convivenza con gli altri esseri viventi. Perché il progresso non può essere costruito sul dolore altrui. E la civiltà non si misura solo in tecnologia, ma anche nella capacità di provare compassione.
Il dolore di quella madre elefante resterà impresso a lungo negli occhi di chi ha avuto il coraggio di guardarlo. Non con pietà, ma con rispetto. Quel rispetto che ogni creatura vivente merita. E allora sì, forse il mondo dovrebbe fermarsi. Anche solo per un attimo. Per piangere con lei. Per ricordare che amare, soffrire, disperarsi non sono prerogative umane. Sono il linguaggio universale della vita.