"Ma tu volevi solo cuoricini, cuoricini... Pensavi solo ai cuoricini, cuoricini... Stramaledetti cuoricini, cuoricini...".
Tanto stramaledetti, da arrivare persino in tribunale. Ovviamente non parliamo del tormentone sanremese, ma dell’emoticon a forma di cuore che, da semplice gesto affettuoso inviato magari con un pizzico di leggerezza, finisce dritto dritto sul banco degli imputati senza passare per il via. A dare il la, per restare in zona musica, un giudice del Tribunale di Foggia, che tre anni fa ha stabilito che inviare cuoricini all’amante può essere causa di addebito in fase di separazione.
Attenti ai cuoricini nei messaggi: in tribunale sono ormai accettati come prova
Della serie, basta uno screenshot, e il gioco è fatto! Non solo cuoricini, però. Perché anche i messaggi vocali sono prove regine nei processi, sia civili che penali. E non si parla solo di dichiarazioni d’amore compromettenti: ad esempio, un semplice pollice su (simbolo dell’ok) su WhatsApp può confermare l’accettazione di spese straordinarie per i figli (Tribunale di Napoli, sentenza dello scorso febbraio).
Lo stesso vale per i debiti: un accordo raggiunto tramite WhatsApp può avere lo stesso valore legale di un contratto cartaceo. Non sono necessarie PEC o firme digitali: basta la parola scritta (o detta) in chat (Tribunale di Milano, sentenza n.823/2025).
E ancora: un messaggio vocale può portare alla revoca del decreto ingiuntivo. Infatti, se il contenuto di una chat può essere utilizzato come prova legale in un procedimento civile ai sensi dell’articolo 2712 del Codice Civile, lo stesso principio si applica agli audio inviati tramite applicazioni di messaggistica. Quando da questi ultimi emerge in modo chiaro e inequivocabile la volontà di una parte di sciogliere unilateralmente un vincolo contrattuale, la controparte non ha più alcun obbligo. In pratica, parola (digitale) contro parola (scritta): vince la chat (Tribunale di Torre Annuziata in una sentenza del dicembre 2024). Da non sottovalutare, infine, l’ambito del processo penale, dove le conversazioni su WhatsApp possono rappresentare una prova decisiva contro l’imputato, anche in assenza del sequestro del dispositivo: gli screenshot sono considerati elementi sufficienti.
Ma attenzione, perché non tutto è così semplice. Se da una parte le conversazioni digitali sono prove potenti, dall’altra c’è un limite invalicabile: la privacy. La Cassazione, con un’ordinanza recente, ha stabilito che non si può usare come prova uno screenshot rubato dal cellulare del partner. Se il marito lascia incustodito il telefono e la moglie ne approfitta per immortalare le sue chat peccaminose, quelle prove non saranno valide in tribunale.
A meno che, ovviamente, le password non siano state condivise tra i coniugi: in tal caso, si entra in un territorio pericoloso dove l’accesso è “consensuale”. Se in ambito civile ci vuole cautela, nel penale le cose cambiano. Qui i magistrati possono usare screenshot e messaggi vocali come prova anche senza il consenso dell’interessato.
Insomma, amore e giustizia passano oramai per WhatsApp: un pollice su vale come una firma, un vocale può salvare o condannare ed uno stramaledetto cuoricino può portare alla separazione con addebito. Perché, si sa, un’emoji può valere più di mille parole. A quando un processo in cui si discute del significato di un like o di gif animata?