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Concerto del primo maggio: giusto chiedere dal palco la libertà per la Palestina, però...

Redazione
 
Concerto del primo maggio: giusto chiedere dal palco la libertà per la Palestina, però...

Non condivido quello che dici, ma mi batterò affinché tu possa dirlo.
Questa frase, con qualche aggiustamento che ha subito nel tempo e quando ancora ci sono molti dubbi sul fatto che il primo a pronunciarla sia stato Voltaire, è in fondo uno dei cardini della democrazia, quello che garantisce a tutti il diritto ad esprimere il proprio pensiero.

Concerto del primo maggio: giusto chiedere dal palco la libertà per la Palestina, però...

Quindi, ed è bene che tutti lo tengano ben presente, la libertà di dire, di esprimersi non è solo un cardine della Costituzione (per fortuna fortuna dell'Umanità, non solo della nostra), ma un precetto del vivere insieme.
Perché se oggi io permetto a te di parlare, a te domani toccherà fare lo stesso con me.

E non ci sono limiti, se non quelli dell'educazione, del buongusto, del rispetto, per l'individuo come per una comunità, una genia, un popolo. Ma sono limiti virtuali, quindi che si possono superare senza nessun problema.
Tutta questa premessa, che apparirà scontata, per come lo è, visto che parliamo di un principio universale, deriva da quel che è accaduto ieri, in occasione del Concerto del Primo maggio, che è diventata sempre di più una kermesse politica che non la celebrazione o la rivendicazione di un diritto, quello ad un lavoro che garantisca la dignità della persona.

Che un evento di simile portata e per il giorno in cui si tiene abbia una ''colorazione'' politica è scontato, in un momento storico in cui tutti parlano di tutto, grazie alla conoscenza che arriva ormai da un numero incalcolabile fonti di informazione.

Ma ieri è accaduto che, per stigmatizzare quanto Israele sta facendo nella Striscia di Gaza, un gruppo musicale, i Patagarri, ha voluto schierarsi accanto ai palestinesi. Cosa giustissima e giustificabilissima, alla luce di quello che stano subendo i gazawi.

Puoi gridare ''Palestina libera'', hai tutto il diritto di farlo, ma usare questa frase sulle note di una canzone della tradizione ebraica, ''Hava nagila'', scritta nel 1918 dall'etnologo Abraham Zevi Idelsohn, lettone di religione israelita, ha avuto il sapore non di una semplice denuncia, ma di una provocazione che - agli ebrei - è sembrata gratuita, ingiustificata.

Questa canzone, che ha innumerevoli versioni, anche da parte di cantanti e gruppi che non possono essere nemmeno lontanamente ritenuti filo-israeliani, è diventato ormai quasi un simbolo, perché il suo testo invita alla gioia e al risveglio del sentimento del popolo ebraico.

Forse, insieme all'Hatikva (scelto come inno di Israele e che si rifà ad un brano italiano del XV secolo, sul quale in molti si sono cimentati con versioni via via più elaborate, culminate in quella di Bedrich Smetana), Hava Nagila è la canzone che più rispecchia il sentimento del popolo d'Israele.

Avere usato, quindi, la sua riconoscibilissima melodia per una versione che inneggia alla libertà della Palestina (lo ripetiamo, ancora una volta, cosa da fare in fretta), non è sembrata un licenza musicale, ma un dileggio gratuito.

Le reazioni sono state immediate, come quella del presidente della comunità ebraica di Roma, Victor Fadlun, che ha avuto parole durissime, che hanno avuto, come conseguenza, solo quella di aumentare l'effetto di una esibizione che, altrimenti, sarebbe finita nel calderone delle molte ore di canzoni del Concerto.
Ci sarebbe solo da domandarsi cosa sarebbe successo se, sul palco, si fosse presentato qualcuno che, in musica, avesse ricordato il massacro di israeliani del 7 ottobre.

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