C’era un tempo, ahimè lontano, in cui il successo era il frutto di un’ardua scalata, di sudore, sacrificio e, oseremmo dire, talento. Un’epoca ormai sepolta sotto la polvere del tempo e i filtri di TikTok. Oggi, per ascendere all’empireo della notorietà, bastano un telefono, un’invettiva sguaiata e un insulto ben calibrato. Il popolo, affamato di mediocrità come un viandante assetato nel deserto, applaude con entusiasmo bovino. Signore e signori, benvenuti nell’era dorata di Rita De Crescenzo, astro fulgente dell’intrattenimento subcorticale, novella musa per una generazione che ha barattato l’intelletto con una connessione Wi-Fi. Tutto ebbe inizio in quell’epoca sospesa che fu il lockdown. Ve lo ricordate, sì? Quando la gente panificava con fervore quasi religioso e intonava cori sui balconi al suon di “andrà tutto bene” riscoprendo talenti sopiti. Alcuni si cimentavano nella letteratura, altri studiavano lingue straniere. Ma il destino aveva in serbo un regalo ancor più prezioso: la proliferazione dei tiktoker. E così, tra un DPCM e un altro, come Venere dalle acque, emerse dal dedalo di vicoli del Pallonetto di Santa Lucia una nuova divinità: la sora Rita. Non con versi sublimi né con lezioni di bon ton si guadagnò l’olimpo digitale, ma con una sentenza che fece tremare le fondamenta del trash contemporaneo: “Svergognata!”. Fu il Big Bang di un universo parallelo, dove l’eleganza si è estinta e il decoro è considerato un’inutile zavorra. E così il verbo si fece brand. “Svergognata” divenne il nuovo motto di una femminilità che ha mandato in pensione la grazia per abbracciare il folklore da fiera di paese. La nostra icona, truccata peggio di Moira Orfei e ingioiellata con la sottigliezza di un lampadario barocco, aprì il suo shop digitale come un’imperatrice in trionfo, seminando il panico nel traffico cittadino. Tazze, cuscini, creme abbronzanti: il merchandising esplose con la furia di un’epidemia, facendo sembrare la Ferragni una monaca trappista.
Rita De Crescenzo l'influencer cha ha invaso Roccaraso
Poi, come ogni epopea trash che si rispetti, giunse la fase culinaria. E quale ingrediente più poetico per condire il decadimento collettivo se non la margarina? La “Vallea”, come la battezzò la nostra gourmet, divenne l’elisir segreto delle sue creazioni culinarie: nelle cotolette, nelle minestre, nei dolci, probabilmente anche nel caffè. Sicuramente nelle speranze di una generazione che probabilmente confonde l’olio extravergine con una leggenda metropolitana. Il tutto con tale zelo da costringere la stessa azienda produttrice a intervenire per chiarire, con malcelato orrore, di non aver mai richiesto simile ambasciatrice. Ma il popolo non si ferma. Il popolo acclama. Il popolo piange di commozione al suo cospetto, in delirio come dinanzi a un’apparizione mariana, salvo che qui i miracoli sono dirette Instagram e balletti improvvisati. E così la nostra Rita, novella regina delle folle, scivola in limousine tra le strade di Napoli, irride vigili urbani, inaugura negozi con il piglio di un monarca medievale e, dulcis in fundo, noleggia ambulanze per le sue sontuose entrate in scena. Non sia mai che il popolo la dimentichi.
E mentre il mito cresce, il conto in banca lievita. “Tremila euro a settimana”, proclama con fierezza, sottolineando con generosità quasi commovente: “Pago le tasse!”. Grazie, Rita, l’umanità intera tira un sospiro di sollievo. Ma che nessuno osi parlare di camorra o ambiguità: “Io ballo, canto, mi diverto! Che male c’è?”. Nessuno, cara mia. “La gente mi segue, mostro tutto quello che faccio anche a casa mia. Una mela? E la vanno a comprare”. Ecco, appunto. Il problema non è tuo, ma di chi ti segue con fervore mistico, di chi organizza pellegrinaggi per vederti dal vivo, di chi confonde il carisma con la caciara. Il problema è di chi ha sorriso con sufficienza, pensando a un fenomeno passeggero, destinato a dissolversi come neve al sole. E invece no, perché, signora mia, al peggio non c’è mai fine. E così Napoli, culla di filosofi e artisti, oggi tributa onori a una donna che ha fatto del trash un’arte e dell’ignoranza una bandiera. No, il problema non è Rita De Crescenzo. Il problema è ciò che rappresenta: l’apoteosi del nulla, il trionfo di una cultura in cui i like valgono più del pensiero critico e i follower pesano più del talento.
E mentre gli intellettuali tacciono, mentre il buon senso si rifugia nei libri impolverati, le nuove generazioni crescono cullate da questa distopia digitale, dove il grido scomposto e il gesto teatrale sostituiscono il contenuto e la riflessione. Oggi è Rita, domani un altro idolo nato dal nulla e destinato a trasformarlo in norma. E noi, testimoni impotenti di questa ascesa, non possiamo che osservare, mentre la cultura si piega sotto il peso di una risata inconsapevole Abbiate pietà di noi. Pietà, soprattutto, delle generazioni future. Che qualcuno erga un argine contro questa marea di vacuità, prima che ci si ritrovi a eleggere influencer al Parlamento. Anzi, forse è già troppo tardi. Ieri, intanto, la nostra icona ha disertato Roccaraso. Prossima tappa: Ovindoli. Poi, chissà, il Grande Fratello. E perché no, parole sue, un ministero del turismo. Del resto, dicono le malelingue, c’abbiamo la Santanchè. Nel frattempo, un corso di grammatica e un paio di forbici per le unghie sarebbero un buon inizio. Nel dubbio, signori, spegnete il telefono e aprite un libro. Prima che sia davvero troppo tardi.