C’è qualcosa di profondamente disturbante nell’assistere al crollo di un monumento nazionale. Ma non un monumento qualsiasi: parliamo di una colonna dorica dell’etnomelodismo italico, di quella voce che ha concimato per decenni i campi della nostalgia popolare, tra un refrain da balera e una metafora vitivinicola. Sì, proprio lui: Al Bano Carrisi, l’indomito bardo di Cellino San Marco, che in un tripudio di lustrini, patriarcato canoro e baritonali accenti pugliesi, ha recentemente dato prova che l’età avanzata, da sola, non basta a garantire la dignità del tramonto.
“Svegliati Deborahhhh!” ovvero: apoteosi del cafonal lirico sotto le stelle sarde
Siamo in Sardegna, terra di nuraghi e silenzi, dove invece risuona l’eco cavernosa di un concerto che avrebbe dovuto essere evento musicale e che si è rivelato, invece, una pièce da avanspettacolo di provincia, con tanto di battute da barbiere e sarcasmi da sagra della porchetta. Il siparietto, che pare scritto da un commediografo ubriaco di Vernaccia, raggiunge il suo acme tragico quando una spettatrice — evidentemente provata, forse dall’esibizione stessa — accusa un malore.
Ed è qui che il nostro tenore della messe entra in scena, non con la compostezza di un artista consapevole, ma con la delicatezza di un vendemmiatore sguaiato: “Svegliati Deborahaaaah!”. Gridato con l’enfasi di chi chiama la moglie dalla stalla, nel pieno di un pranzo contadino, tra il formaggio piccante e l’eco dell’ultimo tiggì. Una scena degna del peggior cabaret da circolo bocciofilo, che solo per un colpo di sfortuna non è stata accompagnata da una fisarmonica.
Ma la vera caduta — quella rovinosa, verticale, definitiva — arriva subito dopo, con l’eleganza che solo il vero provincialismo di lusso sa esprimere: “Una piccola cura dimagrante ci starebbe bene. Io la sto facendo. Ti voglio bene”. Ah, che tenera trivialità! Un pensiero che sembra uscito non tanto da un cuore sensibile, quanto dal retrobottega di un salumiere con ambizioni umoristiche. Un’arguzia da dopolavoro ferroviario, travestita da spontaneità verace.
Ora, verrebbe da chiedersi: come può un uomo che ha calcato il palco dell’Eurovision precipitare in simili bassifondi estetico-morali? Ma la risposta è semplice, anzi scontata: perché confonde la spontaneità con la sfrontatezza, la verità con la villania, e la voce potente con il diritto all’offesa. Si dirà: è un uomo d’altri tempi. E certo, come lo zio molesto che al pranzo di Natale, dopo il secondo bicchiere di Primitivo, chiede ancora “Quand’è che ti sistemi?”, anche Al Bano appartiene a una genealogia che della finezza ha fatto strame.
Ma mentre lo zio, con la cravatta appesa all’orecchio e l’occhio appannato, alla fine tace, il nostro gladiatore vocale continua imperterrito a pontificare, con la sfrontatezza di chi ha vinto un Telegatto e pensa quindi di aver ottenuto l’immunità diplomatica. E nel farlo, si autoincensa come baluardo dell’autenticità, martire del politicamente scorretto, banditore delle cose dette “con il cuore”. Ma il cuore, caro Al Bano, non è una licenza poetica per sparare idiozie come coriandoli in un carnevale decadente.
L’autenticità, senza filtro, si chiama cafonaggine; e l’ironia, senza grazia, diventa solo un colpo basso che fa male dove dovrebbe commuovere. Che poi, siamo sinceri: se la stessa battuta sul peso fosse stata indirizzata a Loredana Lecciso, quella creatura cybernetica che pare progettata con software Autodesk, ci saremmo forse beati dello stesso “Svegliati Deborahhh”? O avremmo assistito a un collasso mediatico, con le viti dei tacchi a spillo tremanti per l’indignazione? O alle figlie, quella progenie impavida che, da Instagram a “Verissimo”, costruisce con abnegazione una carriera sul cognome paterno come fosse una cooperativa agricola? Anche loro avrebbero riso? O avrebbero postato frasi su “rispetto” e “coraggio femminile” tra uno shooting e una diretta da Dubai?
Il finale, poi, è da Divina Commedia scritta da uno sceneggiatore di “Ciao Darwin”: il pubblico applaude. Nessuna buuuata, nessun rigurgito etico. Solo risate, battimani e forse qualche “che simpaticone!”. Come se l’empatia fosse un’opzione extra, una voce da spuntare su un modulo che pochi si degnano di leggere. Il vero collasso, a ben vedere, non è quello della signora Deborah, ma quello del senso critico nazionale. Una débâcle di massa, come se al posto di indignarci, preferissimo esaltarci per il folklore dell’imbarazzo.
In fondo, in un Paese in cui il buongusto è considerato censura e l’eleganza un vezzo da radical chic, c’era da aspettarselo. Ma se la voce, quella sì, può sopravvivere ai decenni, l’intelligenza scenica no: quella, se non ce l’hai, non arriva neppure col passare degli anni, né con l’aiuto delle divinità canore di Sanremo. Il problema, insomma, non è Al Bano. Il problema siamo noi, che applaudiamo. Che ridiamo. Che giustifichiamo. Che, in mancanza di veri modelli, ci accontentiamo dei loro surrogati più rumorosi.
Che confondiamo l’indelicatezza con la franchezza, e lo spettacolo con la farsa. Il problema è che ci fanno ridere le battute da circolo ricreativo. Il problema è che ci piace lo zio cafone, purché canti bene. Eppure, basterebbe poco per rendersi conto che la voce, da sola, non basta a salvare chi ha perso il senso del decoro. Perché quando il palco diventa ring, e la battuta il colpo basso di un ego fuori tempo massimo, allora, caro Al Bano, non c’è più Felicità che tenga.