Attualità
Napoli sul braccio, Juve nel conto: la metamorfosi di Spalletti
di Demetrio Rodinò
 

Luciano Spalletti è il nuovo allenatore della Juventus. Ha firmato un contratto fino al 30 giugno 2026 e il club bianconero lo ha accolto con un comunicato ufficiale pieno di entusiasmo: “Un profilo di competenza ed esperienza che siamo lieti di accogliere nella famiglia bianconera. Benvenuto alla Juventus e buon lavoro, mister!”. Ma dietro i sorrisi di rito, l’abbraccio con i dirigenti e l’ingresso trionfale alla Continassa, resta un retrogusto amaro. Perché il tecnico toscano, appena un anno e mezzo fa, diceva esattamente il contrario. Che non avrebbe mai allenato un’altra squadra in Italia dopo il Napoli, che “dopo certe emozioni è impossibile tornare da avversario al Maradona”.
Eppure eccolo lì, nel quartier generale juventino, a bordo di una Mercedes GLE grigia, ben lontano da quella Panda che a Napoli era diventata simbolo di umiltà e di appartenenza. Allora si diceva che Spalletti volesse incarnare la semplicità e il legame con la città, oggi la scena racconta tutt’altro. Racconta un allenatore che ha scelto la via più redditizia e visibile, pur di rimettersi in gioco nel club più discusso e divisivo d’Italia.
Non si tratta solo di calcio. È una questione di coerenza, di parole date e poi ritirate. Spalletti, che aveva fatto del suo amore per Napoli un tatuaggio sul braccio e un racconto poetico di gratitudine, ha accettato di sedersi sulla panchina simbolo di tutto ciò che il popolo partenopeo ha sempre sentito come opposto, rivale, antagonista. Il passaggio alla Juventus non è solo un cambio di casacca, è il gesto definitivo di chi decide che le promesse valgono finché non arrivano offerte migliori.
Non lo nasconde nessuno, l’indignazione è forte, soprattutto tra i tifosi napoletani. Rosario Procino, presidente del Club Napoli di New York, ha parlato apertamente di “tradimento”.
“L’ennesima dimostrazione che in questo mondo per soldi e fama si è pronti a tutto, persino a rinnegare se stessi e i propri valori”. E non si può dire che abbia torto. Perché l’immagine dell’uomo che aveva giurato fedeltà alla città e ai suoi colori, che piangeva sotto la curva e parlava di un amore “eterno”, ora stride con quella di chi posa con la sciarpa bianconera, in un club che del “Dna Juve” ha fatto quasi una religione.
Il paradosso è che la Juventus stessa, fino a ieri, aveva sempre guardato Spalletti con diffidenza, bollandolo come allenatore bravo ma incompiuto, eterno secondo, mai vincente contro i bianconeri. E adesso lo celebra come l’uomo della rinascita, il profeta di un nuovo corso. Nel calcio, come nella vita, le parole si dissolvono in fretta, basta una firma, un assegno, una promessa di gloria.
Non è questione di odio sportivo né di nostalgia. È la constatazione amara di un mondo dove il denaro e l’ambizione contano più della parola data, più del rispetto, più della memoria. Spalletti, che aveva fatto del sentimento la sua bandiera, ha scelto la convenienza. E così, il suo approdo alla Juventus non è un atto d’amore, ma un atto d’interesse. Un matrimonio di reciproco opportunismo, la Juve che cerca riscatto, e Spalletti che cerca un ultimo grande palcoscenico.
Forse aveva ragione De Laurentiis, che al momento della separazione gli impose una clausola anti-Serie A, temendo esattamente questo epilogo. Perché nel calcio moderno, come nella vita pubblica, la coerenza è un lusso che pochi si concedono. E le promesse, anche quelle tatuate sulla pelle, valgono solo finché non arriva un contratto più conveniente.