Dal 2011 ad oggi, in poco meno di quindici anni, oltre mezzo milione di giovani italiani tra i 18 e i 34 anni hanno deciso di abbandonare il Paese per cercare fortuna altrove. Al netto dei rientri, la cifra reale si attesta attorno alle quattrocento mila unità. Sono numeri impressionanti, emersi da studi condotti da Fondazione Nord Est, ma anche ISTAT e Osservatorio CPI analizzano un fenomeno ormai strutturale: la cosiddetta fuga di cervelli.
Questo tema è da tempo al centro del dibattito politico, accomunando, almeno nelle intenzioni, tutte le forze parlamentari attorno a un obiettivo comune, trattenere le nuove generazioni. Ma le difficoltà dell’Italia nel risultare attrattiva per i giovani non si riducono a una questione di stipendi. Certo, la competitività salariale rispetto ad altri Paesi europei rimane un punto dolente, ma non è l’unico. Incidono anche sistemi universitari esteri più innovativi e specializzati, mercati del lavoro dinamici e meritocratici, una burocrazia meno soffocante, un contesto percepito come più stimolante e aperto al futuro e soprattutto l’inerzia nell’agire di fronte al problema da parte delle istituzioni italiane.
La verità è che negli anni in Italia si è progressivamente affievolita la spinta a restare, quella volontà di “fare grande il proprio Paese” che forse non si è mai consolidata davvero. La globalizzazione, inoltre, ha accentuato il confronto diretto con realtà dove opportunità e innovazione sono molto più accessibili, relegando l’Italia in una posizione marginale nel panorama internazionale della formazione e del lavoro.
Le conseguenze economiche e sociali sono enormi. Secondo le stime della Fondazione Nord Est, il valore del capitale umano fuoriuscito dall’Italia negli ultimi anni ammonta a circa 134 miliardi di euro. Una cifra che, per Luca Paolazzi, direttore scientifico della Fondazione, sarebbe in realtà tre volte più alta, considerando i benefici di lungo periodo che i giovani emigrati trasferiscono alle economie di altri Paesi.
In altre parole, mentre l’Italia forma nuovi talenti, è l’Europa a raccoglierne i frutti.
Il nostro Paese, infatti, risulta all’ultimo in Europa per capacità di attrarre giovani: accoglie solo il 6% di studenti e lavoratori europei, contro il 34% della Svizzera e il 32% della Spagna. Una debolezza che, nel medio periodo, rischia di compromettere i ricambi generazionali nelle imprese, molte delle quali potrebbero essere costrette a chiudere per mancanza di personale qualificato o a vendersi a gruppi stranieri.
L’allarme riguarda anche l’equilibrio demografico. Si stima che entro il 2040 la popolazione tra i 15 e i 64 anni si ridurrà di 5,4 milioni di persone, con un inevitabile calo della forza lavoro e gravi ripercussioni sulla tenuta del sistema pensionistico.
A livello culturale e identitario, il rischio è che l’Italia si trasformi sempre più in una sorta di idea astratta, un luogo a cui appartenere simbolicamente, attraverso la lingua, la tradizione, l’arte, ma non più un terreno fertile dove vivere e costruire il proprio futuro. Rimarrà la nostra cultura, rimarrà il nostro genio creativo, ma senza nuove generazioni pronte a investirvi, questi tesori rischiano di diventare un’eredità statica.
Ecco perché è necessario un cambio di rotta. Le istituzioni, a partire dai governi che guideranno il Paese nei prossimi decenni, ma anche università, banche e imprese, dovranno coordinarsi per mettere in campo un piano di investimenti per la retention dei giovani. Non bastano incentivi a chi rientra dall’estero, occorre pensare anche a chi resta, ai giovani che scelgono di investire sulla propria formazione e sul tessuto imprenditoriale italiano. Sono loro i veri coraggiosi, che meritano di essere sostenuti e non ostacolati.
Senza un ricambio generazionale e senza una gioventù che percepisca l’Italia come terra di opportunità, il rischio è un declino economico e sociale lento ma inesorabile, più profondo di qualsiasi crisi affrontata in passato. E quando ce ne renderemo conto, potrebbe essere troppo tardi.