Riprendiamo dopo la breve pausa pasquale, tirando un attimo il fiato dopo uno dei periodi più volatili degli ultimi decenni. Il mercato resta fortemente scosso, ma sta cercando di stabilizzarsi e tornare a concentrarsi sui fondamentali, ora che siamo nel pieno della stagione delle trimestrali. Si spera, nel frattempo, in una minore frequenza di notizie sui dazi e in dati macroeconomici che non indichino un imminente ingresso in recessione.
I principali indici statunitensi avevano perso oltre il 20% dai massimi dell’anno, con una volatilità paragonabile solo ai periodi del Covid e della crisi del 2008. Successivamente, abbiamo assistito a un rimbalzo tecnico che si sta ora assestando. I titoli ciclici hanno nettamente sottoperformato rispetto ai difensivi, in un mercato fortemente orientato al ribasso e con volumi tra i più elevati mai registrati.
Attualmente, gli indici USA sono ancora in calo dell’8–10% rispetto al periodo del Liberation Day, mentre quelli europei e asiatici si attestano su un -6/7%. Si è trattato, in sostanza, di un vero e proprio reset, nonostante il tentativo di recupero. Il Dollar Index – ovvero il valore del dollaro rispetto alle principali valute – ha perso il 6% da inizio mese, rompendo il supporto a 100$ e scambiando sui minimi degli ultimi tre anni. L’oro, al contrario, continua a essere il principale beneficiario dello scenario attuale, con un rialzo di quasi il 30% da inizio anno.
È necessario analizzare subito la situazione sui dazi, da cui – come ben sappiamo – derivano gran parte delle preoccupazioni del mercato. Il criterio con cui sono stati introdotti è controverso: si basa su una formula che considera la metà del rapporto tra il disavanzo commerciale in beni degli USA verso un determinato paese e le esportazioni totali di quel paese. Un metodo piuttosto rozzo, ideato da Trump per imporre dazi proporzionali alla dipendenza americana da ogni economia.
Escludendo la Cina, tali dazi sono stati rinviati fino al 14 luglio per consentire trattative. Tuttavia, rimane il fatto che, da gennaio a oggi, Trump ha fatto ben 25 annunci sui dazi – uno ogni tre giorni. È comprensibile che il mercato risulti disorientato. Secondo alcuni, la Casa Bianca starebbe volutamente rallentando l’economia per far scendere i tassi d’interesse e ridurre il costo del debito, nel tentativo di contenere il deficit. Negli ultimi quattro anni, la spesa pubblica cumulata rispetto al PIL negli USA ha toccato il 44% – il doppio rispetto all’Europa – e qualcosa, prima o poi, dovrà essere corretto. Il problema è che il solo crollo del mercato azionario ha già eroso valore per circa il 40% del PIL.
Le reazioni internazionali ai dazi si sono divise: alcuni paesi hanno cercato il dialogo con Washington, altri hanno adottato una linea dura. È però irrealistico pensare che gli USA possano negoziare decine di accordi commerciali in pochi mesi, soprattutto dopo i precedenti fallimenti con l’Unione Europea.
Trump ha colpito anche paesi con cui esistevano già accordi, come Canada e Messico. Il Canada ha risposto con fermezza, mentre la Cina ha adottato una strategia ancora più aggressiva: ha sospeso esportazioni di materie prime verso gli USA, bloccato acquisti di petrolio e aerei americani, e intensificato i rapporti commerciali con paesi asiatici. Inoltre, ha sostenuto indirettamente avversari strategici degli Stati Uniti, come la Russia, contribuendo all’approvvigionamento di munizioni tramite la Corea del Nord.
Sotto pressione, Trump ha concesso esenzioni dai dazi su alcuni prodotti tecnologici cinesi – smartphone, tablet, hard disk – senza ottenere nulla in cambio. Questo ha messo in evidenza i limiti della sua strategia. I ricavi generati dai dazi sono risultati ben al di sotto delle attese e la posizione americana ne è uscita indebolita.
Non tutti i paesi, ovviamente, possono reagire con la stessa forza della Cina. L’Europa, per esempio, ha iniziato ad avviare un tavolo di trattative. Tuttavia, l’incertezza generata da queste politiche sta già intaccando la fiducia di imprese e consumatori, soprattutto negli Stati Uniti, dove si sta affievolendo anche la tradizionale narrazione dell’“eccezionalismo americano”.
L’aumento dei rendimenti, la caduta del dollaro (in calo del 6% da inizio mese) e il crollo dell’azionario hanno infranto le classiche correlazioni tra asset, segnalando una perdita di fiducia da parte degli investitori esteri. L’oro, in questo contesto, continua a fungere da bene rifugio, ma occorre cautela: il rally è stato forte e la posizione long sull’oro è ormai molto affollata.
Siamo entrati in un nuovo paradigma degli investimenti, dove l’approccio attivo è tornato a fare la differenza. La situazione attuale ricorda la Brexit: anche in quel caso, si pensava di rafforzare centralità e autonomia, ma si è invece innescato un lungo periodo di declino economico e politico. Gli Stati Uniti, certo, non sono il Regno Unito, ma già ora si intravedono segnali allarmanti: fuga di cervelli, tagli alle università, calo del turismo (-12% a marzo), e una crescente tendenza a spostare capitali all’estero. Ne sono prova l’apertura di conti bancari fuori dagli USA e la crescente domanda di immobili di lusso in Europa – Italia inclusa – dopo anni di stasi.
Non bisogna sottovalutare questo fenomeno: potrebbe essere l’inizio di un nuovo, profondo trend economico-sociale.
Il rischio di recessione a livello globale è aumentato significativamente nelle ultime settimane. Non esiste una misura unica e precisa per quantificarlo, poiché le diverse asset class forniscono segnali discordanti, ma, semplificando, si può dire che la probabilità di una recessione globale è salita a circa il 60%, rispetto a poco più del 10% registrato a inizio anno.
Sappiamo che i dazi sono, di fatto, delle tasse che ostacolano l’attività economica. Se il loro utilizzo aumenta a livello globale, la crescita inevitabilmente rallenta. Alcuni analisti cominciano persino a parlare di stagflazione, ovvero una combinazione di rallentamento economico e inflazione in crescita.
La Banca Centrale Europea, la scorsa settimana, ha deciso all’unanimità un taglio dei tassi di 25 punti base, nel timore di un deterioramento del quadro economico. Il mercato si attende altri due tagli entro la fine dell’anno. Il messaggio di Christine Lagarde è apparso accomodante, anche grazie agli ultimi dati sull’inflazione europea, in lieve calo.
Negli Stati Uniti, invece, il clima è stato più teso. Durante il periodo pasquale, non sono mancate minacce e polemiche del governo nei confronti di Jerome Powell. A differenza della BCE, la Federal Reserve si è presa più tempo per valutare l’impatto effettivo dei dazi, una scelta che non ha favorito il calo dei tassi americani e ha persino spinto Trump a ipotizzare una sostituzione del presidente della Fed – ipotesi complessa e fonte di ulteriore instabilità e sfiducia nei mercati.
Al momento, non abbiamo ancora a disposizione dati macroeconomici sufficienti per valutare appieno le conseguenze dei dazi. Gli unici segnali arrivano dai cosiddetti soft data – sondaggi e interviste a imprese e consumatori – che però già evidenziano un blocco significativo, con un crollo delle importazioni. Il timore è che, nelle prossime settimane, l'arrivo dei dati "hard" possa confermare un quadro ancor più preoccupante. In questo contesto, sarà fondamentale prestare attenzione ai messaggi che emergeranno nel corso della stagione delle trimestrali, dove c’è il rischio concreto di guidance riviste al ribasso o addirittura ritirate.
Siamo quindi in presenza di una situazione inedita, in cui molti investitori si sono trovati costretti a ridurre l’esposizione in modo molto rapido, in attesa di sviluppi concreti, e senza particolare urgenza nel tornare a investire, al di là dei soliti rimbalzi tecnici.
Per quanto riguarda l’outlook di mercato, negli Stati Uniti ci si aspetta una fase laterale, con l’indice S&P 500 probabilmente compreso tra i 5.000 e i 5.500 punti. L’Europa, invece, potrebbe continuare a sovraperformare, grazie a dinamiche sottostanti più favorevoli. La Cina potrebbe emergere come vincitrice relativa, a meno che non si arrivi ad una vera recessione globale.
In sintesi, non è ancora il momento per assumere rischi in modo deciso. Meglio attendere i prossimi dati macroeconomici, l’evoluzione delle trimestrali e un assestamento della volatilità tra le diverse asset class. In questo contesto incerto, lo stock picking potrebbe tornare a fare la differenza come non accadeva da tempo.