C’è un momento, su TikTok, in cui la civiltà si affaccia sull’orlo dell’estinzione non per un meteorite, ma per una tizia truccata come una Barbie post-apocalittica che spalanca gli occhi a palla, arriccia il naso, solleva le manine con le unghie da tigre glitterata e ti intima con la voce di un Pokémon sotto metanfetamina: «Dammi un grrrr! Dammi un grrrr! Dammi un grrrr!».
È lui, in modalità encefalogramma piatto: «Un cheeee?». E lei: «Ta ta ta ta». E no. Non è una burla. Non è arte. Non è un messaggio cifrato degli alieni. Ma solo l’ennesimo, idiotissimo, trend virale di TikTok. Un inquietante balletto tra la scemenza pura e il delirio collettivo. Perché nell’Anno Domini 2025 il genere umano è in grado di mettere il James Webb in orbita, di decifrare i buchi neri, ma contemporaneamente – e con inspiegabile entusiasmo – si arrende a un jingle demenziale che celebra il nulla con tanto di coreografia artigliata. Il “grrrr”, che vorrebbe evocare la ferocia felina ma somiglia più a un colpo di tosse fatto da una Barbie mentre si guarda allo specchio, è il cuore pulsante del trend.
Le performer (perché ormai chiamarle “ragazze” è riduttivo: queste sono sacerdotesse del nonsense) sfoderano smorfie da musical di terza categoria, mimano con le mani unghiate il gesto della tigre, e ti aggrediscono con uno sguardo che vuole essere sexy-ma-divertente-ma-pazzarella-ma-così-random-bellaziii! Il risultato? Un’esperienza audiovisiva simile a quella che si prova cadendo in un barattolo di glitter tossici mentre un criceto suona la sirena d’allarme. Una botta di idiozia purissima, distillata e servita con hashtag come #grrrtrend, #dammiungrrrr e, ovviamente, #viral.
Il successo? Travolgente. Milioni di views, remix infiniti, imitazioni da parte di influencer internazionali, celebrità, cani parlanti e, probabilmente, presto anche politici in cerca di like. Tutti lì a fare “grrrr”, a rispondere “ta-ta-ta-ta”, come se fosse la nuova liturgia digitale. Come se fosse… comunicazione. Ma che significa, esattamente? Qual è il messaggio? Cosa dovremmo trarne? Niente. Zero. Nulla. Il “grrrr” non vuol dire assolutamente una beata mazza. E forse è proprio questo il suo fascino: è l’ideale manifesto della nostra epoca, l’inno dell’inconsistenza, il jingle perfetto per la società che ha smesso di chiedersi “perché?” e si accontenta di chiedere “quanto engagement fa?”. Fosse Pirandello, almeno ci sarebbe ironia. Fosse Ionesco, un minimo di poesia. Invece no: il trend “grrrr” è un distillato di estetica cheap e coreografia da centro commerciale, con quel sottofondo da cartoon scadente che riesce a far sembrare profondo persino uno spot del Pinguino di Sammontana.
Le interpreti, rigorosamente con trucco da clown di lusso e sguardo indemoniato da selfie notturno, recitano con serietà disarmante. Come se davvero stessero partecipando a una qualche forma di arte performativa. In realtà, stanno solo offrendo la prova definitiva che l’algoritmo premia chi urla più forte nel vuoto. E poi c’è lui: il gesto delle mani a “grinfia”, con tanto di unghie gel color lavanda e occhi spiritati, che è la parte più tragica della faccenda. Perché come dicevano i nostri nonni… al peggio, signora mia, non c’è mai fine. Un’imitazione domestica del felino predatore, ma più simile a un gattino imbalsamato con la sindrome di TikTok. La minaccia è tutta estetica, finta, patinata: l’unico vero graffio è quello che ti resta sulla cornea dopo aver visto cinque video di fila. E la risposta – «ta ta ta ta» – è la botta finale. L’elogio supremo al cortocircuito mentale. Cosa vuol dire? Chi lo sa. È l’onomatopea del vuoto. Il colpo di tamburo sul cranio dell’intelligenza collettiva.
Il bello è che nessuno si scandalizza più. I commenti sotto i video non pongono domande, non invocano senso, non chiedono spiegazioni. Si limitano a cuoricini, risatine e un proliferare di emoji a forma di tigre. Ormai ci siamo abituati a questa estetica dell’assurdo. L’ironia è morta, e le abbiamo fatto un TikTok col filtro Bellezza 5. Ogni tanto, certo, qualcuno prova a ribellarsi: “Ma che schifo è sta roba?”. “Aiuto, siamo al capolinea”. “La civiltà è finita nel cesso”. Ma sono voci isolate, subito sommerse da un’ondata di nuovi “grrrr”, sempre più convinti, sempre più isterici. Perché la viralità non ha pietà. Se Dante fosse vivo, scriverebbe un girone dell’Inferno apposito per chi ha lanciato questo trend.
Un cerchio fatto di ring light, lip gloss e filtri kawaii. Ma siamo onesti: non è colpa di chi lo fa. È colpa del meccanismo che lo premia. È colpa nostra, che scrolliamo, increduli, ma scrolliamo. È l’inconscio collettivo che dice: “Ehi, meglio un grrrr che un pensiero!” E allora sì, forse ci meritiamo tutto. Le tigri finte, i ta-ta-ta-ta, le unghie fluo che mimano l’aggressività ma mordono solo l’aria. Ma almeno, se proprio dobbiamo assistere all’implosione del pensiero, che sia con stile.