La finale maschile al Roland Garros tra Jannik Sinner e Carlos Alcaraz avrebbe potuto essere l’incontro degli dei: la sfida che ogni appassionato di tennis attendeva con ansia messianica. Invece, si è tramutata in un grottesco spettacolo da commedia degli equivoci, dove gli spettatori – pardon, i claqueurs in preda a frenesia da stadio – hanno saputo distinguersi come i veri protagonisti.
Merci, Jannik
Ma non nel senso auspicabile del termine. Ieri, infatti, il pubblico parigino è stata un’orchestra stonata, con i più che fischiavano ogni prima di servizio di Sinner esplodendo di gioia ad ogni suo errore non forzato con l’entusiasmo cieco della curva da derby infuocato, che poco o nulla ha a che fare con la finale di uno Slam. Senza ombra di dubbio alcuno, Carlos Alcaraz, in perfetto stile torero che sorride mentre l’arena sanguina, ha dato spettacolo. Ma non solo col dritto: anche col repertorio mimico da attore di boulevard. E così, dopo ogni punto via di pugno al cielo, urlo liberatorio e sguardo fiero verso la folla, come se avesse appena conquistato la Bastiglia. Il pubblico – ben lieto d'essere aizzato come galline da cortile – ha risposto con ola, ruggiti, cori da campetto di periferia. Lo sport? Roba da educande. Il rispetto? Un relitto ottocentesco.
Dall’altra parte lui: il nostro Jannik: composto, dritto come un abete, con l’aria di chi è stato educato a non interrompere quando parlano gli altri. Il suo gioco – chirurgico, paziente, inesorabile – si dipanava come una fuga di Bach su un palco infestato da suonatori di vuvuzela. Ma non ha ceduto.
Non un gesto, non un mugugno, neppure quando l’arbitra – talmente francese da sembrare una caricatura di se stessa – restava muta come una sfinge al cospetto dei continui schiamazzi rivolti al rosso d’Italia. E mentre il pubblico ululava a ogni smagliatura del nostro, la signora giudice, impassibile come il busto di Voltaire, non osava ammonire i suoi connazionali. Forse, colta da un improvviso attacco di patriottismo acustico.
Eppure, non si pretendeva mica la compostezza di Wimbledon, dove anche un colpo di tosse può sembrare un atto sovversivo. Si chiedeva solo un briciolo di decoro, un grammo di sobrietà. Macché. Più che una finale Slam, sembrava una sagra paesana con contorno di rutti e ola. E dire che a Roma, appena un mese fa, il buon Carlos, con fidanzata francese sorriso da anfitrione al seguito, era stato accolto con gentilezza da un pubblico caloroso ma rispettoso, nonostante sfidasse il figlio prediletto d’Italia. A Parigi, invece, Sinner è sembrato un intruso nel salotto buono, trattato peggio di un invitato senza cravatta.
E allora vien da pensare che non sia più il tennis, ma il teatro dell’assurdo, ad essere rappresentato su terra rossa. Un dramma in cinque atti, con protagonisti la volgarità, la maleducazione, la finta passione che cela solo bisogno di rumore. Il pubblico, quel pubblico francese che un tempo si credeva palato fino, si è rivelato stomaco grossolano. Gli stessi che oggi deridono gli hooligan del calcio, si sono comportati come i cugini in doppiopetto degli ultrà.
Ma il capolavoro, il più sublime degli atti, lo ha regalato proprio lui, Jannik Sinner. Perdente nel punteggio, trionfatore nell’anima. Ha stretto la mano, alzato il capo, stretto i denti. Non una smorfia, non un accenno alla sceneggiata balcanica di Djokovic, né la spocchia da enfant prodige di Alcaraz. Solo compostezza. Quella virtù desueta che oggi pare rivoluzionaria. Ha perso, è vero. Ma ha perso come perdono i nobili: lasciando agli altri il frastuono, e prendendosi tutto il silenzio del rispetto. Mentre gli altri urlavano, lui insegnava. Non col dito alzato, ma col portamento.
Non con le parole, ma con lo stile. Perché, cari spettatori di Parigi, si vince anche quando si perde. E si perde, malamente, anche quando si vince, se per farlo si ricorre al chiasso, all’ironia del tifo da corrida, all’arroganza travestita da passione. E voi, che gorgheggiate alla ola come se foste al Moulin Rouge e scrosciate applausi agli errori altrui come comari inacidite al mercato, sappiatelo: potete anche snobbarci con l’aria da gourmet, ma vi rode persino il nostro bidet. Quanto alla sportività, tranquilli… quella non vi sfiora neppure con la racchetta. Merci, Jannik, per averli asfaltati con l’eleganza.