Tutti i guai di noi donne cominciano con lui: il mito tossico del principe azzurro. Quel figurino irreale in calzamaglia ci ha rovinate più di qualsiasi ex. Il primo amore impossibile ci è stato venduto sotto forma di fiaba, impacchettato con fiocchi rosa e accompagnato da messaggi subliminali del tipo: "Aspetta e spera, che prima o poi arriverà qualcuno a salvarti".
Principesse moderne cercasi
E così abbiamo preso alla lettera Cenerentola, che ballava con i topi in soffitta aspettando un nobile col feticismo per le scarpe; la Bella Addormentata, che si beccava il primo bacio da uno sconosciuto mentre dormiva (consenso chi?); e la Sirenetta, che pur di piacere al maschio alpha di turno rinunciava alla voce — ecco, letteralmente al diritto di parola. Poi, quando già eravamo ben confuse, sono arrivati i cartoni giapponesi a rincarare la dose. Terence di Candy Candy ha insegnato a una generazione di adolescenti che l’uomo giusto è quello bello, dannato e costantemente irreperibile. Ma volevamo forse farci mancare Richard Gere in Pretty Woman?
Dove il massimo dell’emancipazione femminile era una carta di credito consegnata da un riccone in crisi esistenziale a una prostituta con gambe perfette e sogni monogami. E così, tra una bambola da pettinare (spoiler: sempre magrissima, biondissima e rigorosamente muta) e un Ken anatomicamente menomato — nel vero senso della parola — abbiamo trascorso l’infanzia. E poi è arrivata l’adolescenza, quel frullatore ormonale e sentimentale in cui abbiamo smesso di sognare solo il grande amore per cominciare a fantasticare sulla redenzione. Volevamo essere viste, scelte, amate a tal punto da venir salvate. Non dal fuoco o dal drago, ma dalla mediocrità del quotidiano.
Nessuno ci ha detto che, spesso, in quelle grandi storie d’amore, le protagoniste o muoiono, o vengono tradite, o finiscono a stirare camicie per sempre. La verità? Se invece della solita coroncina di plastica ci avessero regalato un trapano rosa a pile e un libro di diritto del lavoro, oggi saremmo molto più preparate ad affrontare la vita. E forse anche meno indulgenti verso certi modelli sentimentali.
E invece eccoci qui, nel 2025, con gli stessi cliché travestiti da novità. Proprio quando pensavamo di aver archiviato per sempre il mito dell’uomo salvatore e della donna da salvare, ecco che dai social arriva una nuova deriva virale: il cosiddetto “trattamento da principessa”. Un fenomeno che promette alle donne di essere “onorate” e “venerate” dal proprio partner, in cambio — ovviamente — di femminilità remissiva, grazia decorativa e totale dipendenza emotiva. Una tendenza che, come sottolinea la BBC, sta letteralmente ossessionando la Generazione Z spopolando ovunque. E così sui social, con Instagram in pole position, sotto l’hashtag #PrincessTreatment, pullulano video e foto di giovani donne che mostrano con orgoglio la loro vita da regine, ma nel senso medievale del termine.
Vassoi con cappuccini decorati da cuori di schiuma, mazzi di fiori settimanali (puntualmente di venerdì, come se l’amore avesse il calendario del supermercato: offerta weekend), manicure pagate, portiere aperte con coreografica premura. Un’estetica del privilegio che ha il retrogusto stantio del controllo travestito da amore. La paladina di questo nuovo galateo patriarcale è Courtney Palmer, influencer americana che si definisce “principessa casalinga”. Sul suo profilo TikTok, da milioni di visualizzazioni, mostra una vita in cui il marito fa tutto, decide tutto, guida tutto. “Non parlo con il personale del ristorante, non apro le porte, non ordino il mio cibo”, dichiara orgogliosa. A metà tra una geisha di Las Vegas e una Barbie col piano pensionistico.
Le reazioni? Un misto di entusiasmo e orrore. Le follower la acclamano: “Anche io voglio essere trattata così!”, scrivono con l’innocenza di chi non ha mai letto una biografia su Wallis Simpson. I critici, più lucidi, parlano di “sindrome della principessa prigioniera”. Perché in fondo, dietro ai fiori e ai croissant caldi, si nasconde una dinamica tutt’altro che progressista: quella del controllo mascherato da cortesia, della sottomissione resa Instagram-friendly.
A difendere il fenomeno ci pensa Myka Meier, guru del galateo da mezzo milione di follower, che sostiene: “Non è questione di materialismo, ma di intenzionalità. Essere trattate come una principessa significa ricevere rispetto ed eleganza”. Peccato che eleganza e sottomissione siano cose diverse. E se la tua “intenzionalità” ti impedisce di ordinarti un caffè da sola, allora forse quello che hai trovato non è un principe, ma un secondino in guanti bianchi. Perché diciamolo: il trattamento da principessa non è altro che un ritorno ai ruoli di genere più rigidi, solo aggiornati al linguaggio degli influencer. Lei bella, docile, disponibile. Lui forte, presente, generoso.
Lei da proteggere, lui da venerare. Uno schema antico come l’anello di fidanzamento, che oggi viene rilanciato come se fosse empowerment. Quando in realtà è solo marketing delle relazioni tossiche. A fare il punto è anche Daniel Post Senning, esperto di galateo e pronipote della leggendaria Emily Post, secondo cui queste nuove pratiche “rafforzano modelli tradizionali, più che sovvertirli”. Il punto, spiega, è che “le storie che raccontiamo influenzano il nostro modo di vivere le emozioni”. E se continuiamo a raccontarci che il massimo dell’amore è trovare qualcuno che ci porti la colazione a letto, finiremo per accettare anche tutto il resto: la gelosia, il controllo, la dipendenza. Purché ci arrivi con una rosa rossa in mano.
La verità è che il “princess treatment” non è solo un’innocua moda da social. È un sintomo. Il segnale che, mentre ci illudiamo di essere in una società sempre più egualitaria, il bisogno di protezione maschile torna sotto mentite spoglie. Perché in un mondo in cui le donne devono essere forti, multitasking, sempre performanti, ogni tanto fa comodo fingersi fragili. Sperare che arrivi qualcuno a sistemare tutto. Ma dietro quella fragilità estetizzata si cela una grande pericolosa bugia: quella che ci vuole deboli per amarci. E così, eccoci lì: sorriso perfetto (anche grazie all’acido ialuronico, gentilmente offerto), telefono all’ultimo grido (acquistato “con amore”) e passo felpato verso la gabbia dorata dei nostri sogni, quella con vista social e sbarre rivestite di velluto.
Dove il tuo dolce “tutore sentimentale” ti coccola con massaggi ai piedi e piccole restrizioni quotidiane, sempre nel nome dell’amore, servito su un piatto d’oro zecchino, ma a patto che tu resti zitta, bella, e riconoscente. Eppure dovremmo saperlo: non c’è niente di regale nel dover dipendere da qualcuno per sentirsi amate. Non c’è niente di femminile nell’essere trattate come bambole in vetrina da viziare. E non c’è niente di romantico in una relazione che premia solo l’arrendevolezza. Perché no: non siamo principesse ma donne. E non ci servono castelli, carrozze e principi azzurri che scoloriscono al primo lavaggio. Ci serve rispetto, ascolto e spazio per essere stanche, incasinate e pure sbagliate senza dover sorridere per forza. Ci serve la libertà di dire no senza sentirci colpevoli, e quella di dire sì senza dover chiedere il permesso. Ci serve qualcuno che cammini accanto, non davanti a tirare o dietro a giudicare. E a volte, la verità è che non ci serve proprio nessuno. Perché la favola ce la scriviamo da sole. E non è detto che preveda l’happy end e un bacio al tramonto sul mare.