Salute

Giornata Mondiale dell’Alzheimer, un richiamo alla dignità di pazienti e caregiver

Redazione
 
Giornata Mondiale dell’Alzheimer, un richiamo alla dignità di pazienti e caregiver

L’Alzheimer non è soltanto la malattia della memoria, è un crollo progressivo delle capacità cognitive che si porta dietro conseguenze devastanti sul piano sociale, economico ed emotivo. Oggi nel nostro Paese i pazienti con demenza superano il milione e, accanto a loro, ci sono almeno tre milioni di caregiver familiari, figure invisibili che reggono sulle spalle un carico enorme.

Oggi è la Giornata Mondiale dell’Alzheimer

Ansia, depressione, stress cronico: secondo gli studi citati dalla Società italiana di geriatria ospedale e territorio (Sigot), oltre il 40% dei caregiver sviluppa disturbi psicologici. In termini concreti significa che più di 1,2 milioni di persone rischiano di ammalarsi proprio perché dedicate interamente alla cura di un familiare. È in questo scenario che ieri, 21 settembre, si è celebrata in tutto il mondo la Giornata dedicata all’Alzheimer, istituita nel 1994 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e da Alzheimer’s Disease International. Una ricorrenza che cade ogni anno con l’inizio dell’autunno e che non ha solo un valore simbolico, ma richiama l’attenzione su un dramma umano e collettivo che cresce in silenzio. In Italia l’Alzheimer rappresenta già la settima causa di morte e assorbe circa 15 miliardi di euro l’anno, una cifra imponente che grava in larghissima parte sulle famiglie.

Accanto ai numeri, resta il volto umano di questa malattia: la fatica dei caregiver, troppo spesso lasciati soli; lo stigma che porta molte famiglie a chiudersi nel silenzio; la solitudine di chi, giorno dopo giorno, osserva un genitore, un partner o un amico scivolare in un oblio che cancella legami e identità. «La speranza nei farmaci innovativi è importante, ma non sufficiente», sottolinea Lorenzo Palleschi, presidente della Sigot. «Le priorità devono essere la diagnosi precoce, reti territoriali solide, comunità accoglienti, prevenzione attraverso stili di vita sani e sostegno concreto a chi assiste».

Il tema scelto quest’anno dal Rapporto Mondiale Alzheimer 2025 è proprio la riabilitazione come parte integrante della cura. Non solo farmaci quindi, ma percorsi personalizzati che includano attività cognitive, esercizio fisico, terapie creative e programmi di teleriabilitazione per chi vive lontano dai centri specializzati. «Dobbiamo smettere di pensare che con la diagnosi la vita finisca», spiega Mario Possenti, segretario generale della Federazione Alzheimer Italia. «Una persona con demenza può vivere a lungo e con dignità se ha accesso a un sostegno efficace e a interventi capaci di valorizzare le capacità residue».

La riabilitazione, sottolineano gli esperti, può restituire intenzionalità, ridare senso al quotidiano e alleggerire il peso delle famiglie. Lo conferma anche Paola Barbarino, Ceo di Alzheimer’s Disease International: «Con il giusto supporto si può vivere bene per molti anni dopo la diagnosi. È tempo che i sistemi sanitari offrano percorsi riabilitativi per la demenza così come avviene per altre patologie croniche».

 Se la scienza cerca nuove strade, l’arte da anni prova a raccontare l’indicibile. Il cinema, con il suo potere di rendere visibile l’invisibile, ha saputo descrivere la frattura emotiva che l’Alzheimer porta dentro le famiglie. Non si tratta solo della perdita della memoria, ma del dolore di un amore che non viene più riconosciuto, dello sguardo smarrito di un padre che non sa più chi ha davanti, della voce di una madre che dimentica persino le parole. Molte le pellicole che hanno cercato di restituire questo abisso con delicatezza e verità.

E così, in “Ella & John” di Paolo Virzì, Donald Sutherland interpreta un uomo che perde progressivamente i ricordi, ma non la forza di partire in camper con la donna che ama, interpretata da Helen Mirren, per vivere un’ultima avventura insieme. In “Still Alice”, Julianne Moore è una linguista di fama mondiale che, di fronte a una diagnosi precoce di Alzheimer, vede sgretolarsi non solo il linguaggio, ma anche le certezze più intime della sua vita. Altre storie colpiscono per la loro durezza emotiva: “The Father”, che valse l’Oscar a Anthony Hopkins, mette in scena il disorientamento totale di un anziano che non riconosce più la figlia, mentre “Una sconfinata giovinezza” di Pupi Avati racconta il crollo di una coppia travolta da una malattia che non lascia scampo ma che non riesce a spegnere l’amore.

E ancora “Le pagine della nostra vita”, in cui una donna affetta da demenza rivive ogni giorno la sua storia attraverso le parole del marito, o “Supernova”, che mostra la fragilità di un amore tra due uomini minacciato dall’avanzare della malattia. Film, questi e molti altri, che non sono semplici racconti, ma finestre aperte sul dolore di chi vive l’Alzheimer. Strumenti di consapevolezza capaci di abbattere lo stigma e di portare alla luce l’umanità che resiste anche quando la memoria svanisce. Perché l’Alzheimer, come ricordano gli esperti, non cancella la capacità di provare emozioni, di amare e di essere amati.

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