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Mercato immunizzato rispetto alle divergenze macro e ai rischi inflazionistici?

di Andrea Delitala, Head of Multi Asset Euro di Pictet Asset Management
 
Mercato immunizzato rispetto alle divergenze macro e ai rischi inflazionistici?
Dalla metà di maggio, il quadro macroeconomico globale ha iniziato a mostrare segnali di normalizzazione, con le diverse asset class che hanno progressivamente scartato gli scenari più estremi (recessione o stagflazione). La volatilità, che aveva dominato le settimane precedenti, è stata in parte riassorbita e i mercati azionari hanno non solo recuperato le perdite ma in alcuni casi superato i livelli pre-crisi. Tuttavia, tale rimbalzo ha evidenziato alcune asimmetrie nei fondamentali, in particolare tra mercati equity e fixed income da un lato, e quelli valutari dall’altro. Il commercio internazionale rimane il principale fattore di tensione, con le politiche protezionistiche statunitensi che continuano ad alimentare incertezza politica con un impatto stagflattivo non irrilevante, seppur ridimensionato, rispetto a quanto temuto all’indomani del Liberation Day.

Tre fasi dall’Inauguration ad oggi. Fase tre: immunizzazione del mercato?

Dall’elezione di Trump, si sono avute tre fasi. Nella prima, la vittoria del tycoon ha amplificato la fiducia dei mercati nell’eccezionalismo americano, sul presupposto che gli Stati Uniti sarebbero diventati ancora più pro-business. Le previsioni di crescita sono salite oltre il potenziale e sopra il 2%; poi, nella seconda fase, iniziata con il Liberation day il 2 aprile scorso quando sono stati annunciati i dazi reciproci, il mercato ha vissuto un momento di panico e le previsioni per il 2025 hanno incorporato un impatto rilevante – in temini di minor crescita e più inflazione –conseguente alle decisioni della Casa Bianca: molte case d’affari davano la Recessione come probabile. Da metà maggio, invece, siamo entrati in una fase di normalizzazione che ha visto contemporaneamente l’azionario sovraperformare e l’obbligazionario riprendersi dalla correzione iniziale. Tuttavia, questo recupero non è avvenuto per il dollaro, che ha invece continuato a deprezzarsi (-6% dal 2 aprile, -10% YTD), riflettendo peraltro i desiderata dell’amministrazione Usa. Questa divergenza solleva dubbi sulla coerenza complessiva del pricing degli asset. A nostro avviso, si tratta di una situazione di “mancato panico”: gli effetti delle politiche di Trump non sono stati eliminati, ma i danni attesi sono stati ridimensionati.

Incoerenze nei fondamentali? Forse il consenso è troppo condiscendente

Il rally dell’azionario con bond stabili e un dollaro debole indicano una possibile sovrapposizione di aspettative la cui coerenza non è immediata. Se i fondamentali giustificano il rimbalzo azionario e la resilienza delle obbligazioni, allora anche il tasso di cambio dovrebbe riflettere questa maggiore solidità. È possibile che il mercato stia ignorando il rischio di un aggiustamento qualora una delle componenti (per esempio l’inflazione) mostrasse una dinamica inaspettata. A nostro avviso le proiezioni di consenso per gli Stati Uniti - 1,5% crescita e 2,9% inflazione - sottostimano le pressioni inflazionistiche e sovrastimano il momentum economico. Le politiche economiche implementate dalla Casa Bianca – con effetti spesso divergenti tra breve e medio periodo – portano in sé il rischio di surriscaldare l’inflazione e frenare la crescita. Per l’Europa siamo invece più ottimisti rispetto alle stime di consenso. Tale disallineamento suggerisce che i mercati stiano sottovalutando l’impatto reale del policy-mix americano, soprattutto per la componente protezionistica.

Le quattro direttrici delle policy statunitensi

La politica economica americana si basa su quattro aree di intervento, con effetti potenzialmente divergenti. Mentre i dazi e le barriere all’immigrazione generano conseguenze stagflattive, il pacchetto di stimolo fiscale (Big Beautiful Bill), composto in gran parte da incentivi agli investimenti e tagli alle tasse, è un propellente per l’attività economica ma anche per l’inflazione. La deregolamentazione nel settore energetico può fornire supporto alla crescita, ma con un impatto macroeconomico marginale. Nel complesso, il pacchetto fiscale peggiorerà il saldo di bilancio, con un incremento del deficit del governo federale stimato in 3.500 miliardi di dollari su un orizzonte di dieci anni. Sul fronte della politica commerciale statunitense, la nostra visione è meno ottimistica rispetto alle previsioni di consenso. Attualmente i dazi medi Usa si attestano attorno al 14,7%, con potenziale aumento al 16,4% nel caso in cui ad agosto entrassero in vigore le misure annunciate da Trump attraverso l’invio di lettere specifiche per Paese. Se invece si tornasse allo scenario paventato durante il Liberation Day, con tariffe reciproche, l’incidenza salirebbe al 20,7%. Secondo le stime dei nostri economisti, l’effetto cumulato dei dazi attuali aumenterebbe l’inflazione americana dell’1,7% e ridurrebbe la crescita dell’1,3%. Trattandosi di effetti spalmati su più trimestri, sebbene non trascurabile, l’impatto appare gestibile. Tuttavia, a nostro avviso, il mercato è fin troppo rilassato: mentre le nostre previsioni sulla crescita sono abbastanza allineate con quelle di consenso, siamo più pessimisti sull’inflazione, che ci aspettiamo ben oltre il 3% anche nel 2026.

Il mercato del lavoro come driver dell’inflazione futura

Ad oggi, l’aspetto più preoccupante riguarda la crescita dei prezzi: al di là degli impatti dei dazi, già incorporati nelle previsioni e tendenzialmente transitori, in questo momento l’inflazione USA è alimentata dalla crescita dei prezzi nei servizi, fortemente legata alla dinamica salariale. La tensione tra domanda e offerta di lavoro – misurata dal rapporto tra vacancies (posti vacanti) e disoccupazione – segnala un rischio di “second round effects”, ovvero una spirale secondaria di prezzi-salari. È bene considerare anche che le politiche restrittive varate da Trump sull’immigrazione hanno ridotto di oltre 1 milione gli immigrati presenti nella forza lavoro, mentre quella relativa ai lavoratori nativi è salita di 2 milioni; questo configura un successo rispetto alle promesse elettorali di Trump ma potrebbe creare frizioni nel mercato del lavoro con conseguenze inflattive anche in presenza di un’attività economica meno dinamica (se escono persone dal paese è come se si rimpicciolisse l’economia, ma non per questo la discesa del GDP giustificherebbe politiche espansive).

Un punto cruciale è poi rappresentato dal rapporto tra produttività e salari reali. Questo differenziale è direttamente legato alla dinamica dei margini aziendali: quando la produttività cresce più dei salari, i margini tendono ad allargarsi. Questo è stato uno degli elementi alla base della forza del mercato azionario statunitense. Tuttavia, negli ultimi mesi i salari reali hanno recuperato in modo significativo, il che avrebbe potuto mettere sotto pressione i margini aziendali, se non fosse per l’eccezionale dinamica della produttività che si è mantenuta di pari passo; negli ultimi trimestri, però, si comincia a notare un rallentamento. L’intelligenza artificiale potrebbe rappresentare un nuovo motore della produttività, ma entità e tempi sono ancora da verificare.

La posizione della Fed

Nonostante le pressioni politiche per un allentamento monetario, il governatore della Fed Jerome Powell ha mantenuto una postura prudente, confortato anche dalle ultime revisioni delle stime macroeconomiche: a giugno sono state riviste al rialzo le previsioni di inflazione - dal 2,7% al 3% - e al ribasso quelle sulla crescita, da 1,7% a 1,4%. È importante ricordare che il mandato della Fed, oltre alla stabilità dei prezzi, contempla anche il pieno impiego, ma non la crescita del PIL. Pertanto, anche in presenza di una crescita più bassa, se il mercato del lavoro continuerà a rimanere solido - la disoccupazione è oggi al 4,1% - la Fed non sarà tenuta a intervenire. Dall’altra parte, il mercato continua oggi a scontare diversi tagli ai tassi, soprattutto per l’anno prossimo, mettendosi in contrasto con la visione della banca centrale, che prevede soltanto due tagli nel corso del 2025.

Tassi a lungo termine e strategie fiscali

Per quanto riguarda i tassi, sulla parte lunga della curva osserviamo dinamiche interessanti. Dopo i timori per la sostenibilità del debito pubblico, causati da una perdita di fiducia nei titoli di Stato all’indomani del Liberation day, l’amministrazione Usa, anche per evitare pressioni sui tassi a lunga, sta limitando le emissioni di bond a lunga scadenza, privilegiando quelle a breve. Non si tratta di un regime ufficiale di controllo dei rendimenti (come avviene in Giappone) ma una sorta di “yield control soft”, per evitare un irripidimento indesiderato della curva dei tassi.

Preferenza per Europa e Mercati Emergenti

In ottica allocativa, il quadro delineato suggerisce un atteggiamento più prudente sugli Usa, sia lato equity che fixed income. La crescita potrebbe deludere, mentre l’inflazione potrebbe sorprendere al rialzo – scenario poco favorevole per duration lunghe e per i settori più sensibili ai costi dei fattori produttivi. Il tasso di cambio debole, sebbene “desiderato” dall’amministrazione americana, crea distorsioni nel pricing relativo tra asset statunitensi e quelli del resto del mondo, e potrebbe preludere a un ulteriore deprezzamento della valuta USA. In questo scenario, Europa e Paesi Emergenti potrebbero beneficiare di un riprezzamento. A livello strategico, le nostre preferenze sono orientate verso la duration europea rispetto a quella americana, principalmente per la minore volatilità e per motivi di valutazione. Inoltre, la svalutazione del dollaro ha fatto aumentare il costo di copertura (cost of hedging). Di conseguenza, investire in asset americani è oggi meno conveniente sia per il rischio cambio che per il costo stesso dell’hedging.

L’apparente fase “Goldilocks” in cui sembrano trovarsi i mercati rischia di essere frutto di una narrativa eccessivamente ottimistica. Le frizioni strutturali – soprattutto commerciali – sono tutt’altro che risolte. Se il ciclo macroeconomico americano sta per invertirsi, il rischio non è tanto una recessione immediata, quanto il passaggio a un regime caratterizzato da stagnazione inflazionistica, con tutte le implicazioni che questo comporta in termini di politica monetaria e posizionamento di portafoglio. In conclusione, si profila un contesto dove prevale ancora una visione prudente, soprattutto per quanto riguarda la parte breve della curva e le asset class statunitensi, penalizzate da incertezza politica, valutazioni tirate e cambio meno favorevole. Al contrario, l’Europa e gli Emergenti sembrano oggi più interessanti, sia per ragioni relative di valutazione, sia per la possibilità di beneficiare di un dollaro meno forte e di una politica monetaria più espansiva.
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