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La Giustizia non va in pensione. A 94 anni in cella, ma con bastone e badante

di Redazione
 
La Giustizia non va in pensione. A 94 anni in cella, ma con bastone e badante
Altro che “non si finisce mai di imparare”: in Italia, evidentemente, non si finisce mai di scontare. Nemmeno a 94 anni. È la storia tragicomica – se non fosse drammaticamente vera – di R.C., ex imprenditore fiorentino che, dopo quindici anni di carte bollate e ricorsi a singhiozzo, si è ritrovato con una condanna definitiva e un biglietto di sola andata per la casa più scomoda di tutte: il carcere di Sollicciano.

Bancarotta fraudolenta, per un crac aziendale che risale a quando l’uomo aveva appena 80 anni. Roba che, per chi ha superato gli “anta” da più di mezzo secolo, equivale a un ricordo da album fotografico. Condannato in primo grado a 4 anni e 8 mesi, appello confermato, Cassazione saltata. Il dado è tratto: giustizia è fatta, almeno sulla carta. Peccato che nel frattempo l’imputato abbia perso non solo la causa, ma anche parte dell’equilibrio (cammina solo con il bastone e l’aiuto di un altro detenuto) e, forse, il senso stesso del reato commesso.

Ora R.C. è lì, nella cella del reparto clinico di Sollicciano, che – va ricordato – non è esattamente un resort sanitario. È uno dei penitenziari più discussi d’Italia, dove domenica scorsa due detenuti hanno dato fuoco a una cella e un agente è rimasto intossicato. In mezzo a tutto questo, il nostro novantaquattrenne cerca di capire come si è passati dal panettone alla penitenziaria.

Secondo il suo avvocato, Luca Bellezza, si poteva optare per una misura alternativa. Tipo arresti domiciliari con tombola inclusa, o un braccialetto elettronico che segnala quando prende il Brioschi. Ma niente da fare: il giudice ha deciso che il bastone e le stampelle non bastano a fermare un pericolo pubblico. “Abbiamo notificato l’ordine di esecuzione solo a lui”, conferma il tribunale, come a dire: nessun favore, neanche per chi ha più candele sulla torta che anni di reclusione.

Giuseppe Fanfani, garante dei detenuti toscani, si è detto perplesso: “Difficile immaginare che un uomo di 94 anni rappresenti un pericolo”. E qui parte spontaneo l’applauso sarcastico: già, forse l’unico attentato che può compiere è al fegato degli infermieri, con qualche rimostranza sull’orario della minestrina.

Don Vincenzo Russo, ex cappellano del carcere, non le manda a dire: “Non c’è reato che giustifichi una tale disumanità”. Eppure è andata così, perché – come si sa – la legge è uguale per tutti. Anche per chi ha bisogno dell’ossigeno più del perdono.

Nel frattempo, si muove qualcosa: si parla di un trasferimento in una casa di cura più adatta. Ma, conoscendo i tempi della burocrazia, potrebbe arrivare dopo la centesima candelina. La giustizia, si sa, ha tempi biblici. E in questo caso, più che al Vangelo, sembra ispirarsi al Libro delle Lamentazioni.

Intanto, in cella, R.C. aspetta. Forse non la redenzione, ma almeno un materasso più morbido. Perché anche i condannati – specie quelli che hanno più passato che futuro – avrebbero diritto a un pizzico di umanità.

Post scriptum: se avete ancora dei dubbi sull’efficienza della macchina della giustizia italiana, sappiate che il motore gira benissimo, a 15 km/h.
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