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Carmignac - Prospettive per il 2025
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OUTLOOK ECONOMICO – RAPHAËL GALLARDO, CHIEF ECONOMIST
Il 2024 è stato il "più grande anno elettorale della storia" con quasi il 40% della
popolazione mondiale, che rappresenta il 60% del PIL globale, chiamato alle urne.
Anche se i governi in carica hanno abbracciato alcune delle politiche eterodosse
degli avversari, l'80% di essi è stato travolto da un'ondata populista globale. Dopo
tre decenni di disuguaglianze crescenti e una quasi stagnazione dei salari mediani
reali, il ritorno dell'inflazione nel 2021-2023 ha rappresentato l'ultima goccia che
ha convinto gli elettori ad abbandonare l'ortodossia favorevole al mercato del
‘Washington Consensus’.
Nel 2025 i leader populisti, eletti sulla base di programmi di lotta all’inflazione, dovranno fare i conti con
la realtà fiscale: l'inflazione persistente (un fenomeno globale con l’eccezione della Cina) e traiettorie di
bilancio insostenibili manterranno elevati i costi di finanziamento reali mentre i mercati valutari
rimarranno estremamente inquieti. Per i populisti si attende una resa dei conti che metterà alla prova la
pazienza dei cosiddetti “bond vigilantes”, soprattutto ora che tutte le principali banche centrali stanno
riducendo i bilanci e di conseguenza la liquidità disponibile necessaria per garantire il corretto
funzionamento dei mercati obbligazionari. Se questi grossi investitori obbligazionari dovessero iniziare
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a vendere in segno di protesta contro politiche di bilancio apparentemente insostenibili, si riverserà sul
mercato un'ondata di obbligazioni che farà lievitare i costi di finanziamento e indebolirà il tasso di
cambio, causando un circolo vizioso con l'inflazione e l'economia reale.
Il ritorno del "populista per antonomasia", Trump, porterà quasi certamente a un immediato
inasprimento delle politiche migratorie e all'imposizione di dazi, con conseguenti ricadute negative sul
lato dell'offerta dell'economia statunitense. Al contrario, le prospettive di deregolamentazione e di
riduzione delle imposte stimolerebbero la domanda interna mantenendo la crescita dell'economia
intorno al 2,5%, ma con un'inflazione persistente superiore all'obiettivo e tassi di finanziamento reali
elevati, in particolare per le famiglie a basso reddito. Questa crescita "non inclusiva" esaspererà le
frustrazioni sociali che hanno mobilitato la coalizione elettorale di Trump. Consapevole della sua
vulnerabilità politica alla Camera (maggioranza risicata), il neopresidente si sentirà obbligato a
mantenere le promesse elettorali di tagli alle tasse e rinascita industriale, trovandosi di fronte a un
mercato obbligazionario saturo e a un dollaro forte guidato dal Nasdaq. Il populista si trasformerà in un
“disruptor”.
Come Franklin D. Roosevelt, Nixon e Reagan prima di lui, anche Trump sarà tentato di allentare i vincoli
esterni e fiscali e di ricreare un po' di spazio politico esternalizzando verso il resto del mondo i costi del
suo piano economico, svalutando il dollaro o imponendo la repressione finanziaria ai suoi alleati
(emettendo “war-bond” ai partner della NATO+). Come ultima risorsa, Trump potrebbe affossare
l'indipendenza della Fed.
Per quanto riguarda l'Eurozona, il principale driver l’anno prossimo sarà la traiettoria politica e fiscale
della Francia. Se la classe politica francese non sarà in grado di porre rimedio al deterioramento fiscale,
la crisi istituzionale potrebbe trasformarsi in una crisi finanziaria con ramificazioni globali, viste la
diffusione delle obbligazioni sovrane francesi nei portafogli globali e la forte presenza internazionale
delle banche francesi. Soprattutto, l'attuale impasse certifica 25 anni di incapacità dell'Unione Europea
di imporre i meccanismi di disciplina fiscale agli Stati dell’Eurozona, una condizione vitale per un'unione
monetaria sostenibile. La crisi politica della Francia non ne permette per ora il salvataggio attraverso i
meccanismi di salvaguardia creati dopo la crisi greca (fondo salva-Stati, OMT, scudo anti-spread),
rischiando di far riemergere dubbi sulla tenuta dell'euro. A differenza degli Stati Uniti, indebitati nella
propria valuta e in grado di monetizzare la propria potenza militare, la Francia non può sgonfiare il
proprio debito o svalutare la moneta. Le dolorose conseguenze del risanamento di bilancio si
ripercuoteranno sull'economia reale, in particolare sul mercato del lavoro.
Infine, la Cina, alle prese con la deflazione da debito, la cosiddetta “giapponesizzazione” dell’economia,
ma si attiene a politiche reattive di stimolo minime, rifiutando ideologicamente di varare provvedimenti
di rilancio della spesa al consumo. La stabilizzazione dei prezzi del mercato immobiliare nelle città di
primo livello non basta per stimolare l'attività edile a livello nazionale. Xi ha la priorità di costruire
un'economia a prova di sanzioni e orientata all'esportazione sulla frontiera tecnologica. La sorveglianza
distopica della popolazione gli consente di innalzare il livello politicamente accettabile di frustrazione
sociale. In assenza delle misure di stimolo tangibili annunciate nelle sessioni parlamentari di marzo,
dovremo rimanere prudenti sull'economia cinese.
STRATEGIA DI INVESTIMENTO KEVIN THOZET, MEMBER OF THE INVESTMENT
COMMITTEE
I mercati globali riflettono l'eccezionalismo USA post-elezioni, mentre le azioni
europee ed emergenti restano ai minimi delle valutazioni storiche. Il ritorno dei bond
vigilantes, coniugato al passaggio degli Stati Uniti dall'eccezionalismo alla disruption,
potrebbe fare da catalizzatore per una grande rotazione regionale.
In tale scenario, preferiamo:
Azioni globali miste e diversificate: Prevediamo una sovraperformance degli Stati Uniti a inizio anno (effetto Trump 2.0 sulla fiducia e sulla
spesa al consumo, società con aliquote fiscali effettive più elevate, per esempio le PMI). Tuttavia, i timori
di inflazione e una curva dei rendimenti più ripida a termine potrebbero indurre gli investitori a mettere
in discussione le valutazioni azionarie statunitensi davvero eccezionali. Nel resto del mondo, non sono
da trascurare né il potenziale delle autorità cinesi di attuare un maggiore allentamento, né la capacità di
reazione di quelle europee in un’epoca di crisi esistenziale. E dato che i responsabili politici sono costretti
a reagire, potrebbero prendere il sopravvento strategie contrarian.
Negli Stati Uniti lo scenario di base prevede un riversamento sul mercato degli investimenti esteri diretti
a causa della minaccia dei dazi. Non possiamo però escluderne altri, come un secondo accordo del Plaza1
,
l'emissione dei bond di Bessent negli stati clienti e anche la dominanza fiscale.
Nel frattempo, il sentiment pessimistico che predomina nei confronti dell'Europa fa sì che alcuni asset di
qualità elevata, meno esposti alle incertezze economiche e politiche, possano essere acquistati a sconto
rispetto ai loro omologhi americani, fornendo un’ottima diversificazione del portafoglio.
Non ci aspettiamo una crescita mirabolante visto quello che sta accadendo – o meglio non sta accadendo
– nel Vecchio Continente, ma diversi fattori potrebbero giocare a favore delle azioni europee. Molte
aziende leader a livello globale sono attualmente disponibili a valutazioni molto competitive: per esempio
titoli del settore aerospaziale o dell'elettrificazione, che beneficiano di fattori strutturali favorevoli a lungo
termine e sono quindi meno dipendenti dalla crescita economica. In questo segmento troviamo società
europee e statunitensi che, pur avendo margini simili, una crescita attesa degli utili per azione
comparabile e ricavi denominati in dollari, sono scambiate con una differenza del 20%-30% su numerosi
parametri. Esempi analoghi si possono trovare nei settori farmaceutico, dei beni di consumo discrezionali.
L'accordo del Plaza fu un accordo sui tassi di cambio sottoscritto il 22 settembre 1985, con l'obiettivo
di contrastare attraverso interventi coordinati sul mercato dei cambi il persistente apprezzamento del
dollaro registrato nella prima metà degli anni Ottanta.
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e dei beni di consumo di base, in particolare in società europee con fondamentali solidi e prospettive di
ROE simili alle controparti statunitensi ma con valutazioni molto diverse.
Gli “amici di Trump”
Nel resto del mondo, una ristretta cerchia di "amici di Trump" ci permette di rivolgere la nostra attenzione
ad asset finora trascurati. Ravvisiamo opportunità in Paesi con situazioni specifiche che hanno già dovuto
affrontare i bond vigilantes e che raccolgono i frutti dell’attuazione di riforme significative e di politiche
di risanamento, come l'Argentina (dove l'inflazione sta calando da tripla a doppia cifra), la Turchia (con i
rendimenti reali finalmente in territorio positivo) o l'Ecuador (favorito dalla combinazione di riforme e
sostegno delle istituzioni internazionali). E anche in paesi decisamente più coperti, come il Giappone
(dove l’apprezzamento della valuta e l'inasprimento della politica monetaria dovrebbero essere percepiti
favorevolmente sia dal presidente eletto che dagli investitori globali) e l'India (che beneficia di una
crescita positiva a lungo termine e del recente arretramento delle valutazioni azionarie).
Carry elevato e obbligazioni flessibili
A seguito dell'impennata a livello globale del debito e dei deficit nazionali, i vincoli di bilancio spingono le
banche centrali (esclusa la Fed) ad agire per risollevare l’economia nel 2025 al posto dei governi. Se ne
dovrebbero avvantaggiare i segmenti obbligazionari in cui il reddito prevedibile ("carry") offre il miglior
indicatore dei potenziali rendimenti futuri nel tempo nonché il miglior cuscinetto per ammortizzare le
cattive notizie. A tal riguardo, preferiamo i titoli corporate investment grade a breve termine, per i quali
un potenziale ampliamento degli spread creditizi sarebbe più che compensato dall'abbassamento dei
tassi, e le obbligazioni high yield sostenute da fattori tecnici favorevoli in un contesto in cui le emissioni
nette sono state negative e dovrebbero essere costantemente assorbite dall'appetito degli investitori nei
prossimi trimestri.
Rimaniamo decisamente prudenti nel segmento dei titoli di Stato dei mercati sviluppati che, nonostante
le circostanze, offrono un rendimento esiguo. Infine, l’aspetto attuale della curva dei rendimenti (da
invertita a piatta) e il tema persistente dell'inflazione ci inducono a preferire le obbligazioni legate ai tassi
reali (indicizzate all'inflazione) anziché nominali.