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Borse ancora positive, ma più volatili in caso di ripresa dell’inflazione

 

 L’esperienza di questi ultimi anni conferma una verità antica, ovvero che le borse si muovono seguendo quella che individuano come la priorità politica del momento. Se questa è la crescita, le borse si muovono verso l’alto. Se la priorità è il contenimento dell’inflazione, le cose si complicano.

  Il 2021 ci ha dimostrato che quando governi e banche centrali vogliono a tutti i costi la crescita, i mercati azionari sono volentieri disposti a tollerare l’inflazione se gli utili delle società salgono in termini reali, ovvero più dell’inflazione stessa.

  Il 2022, al contrario, ha visto la priorità passare dalla crescita alla lotta all’inflazione. Le borse si sono sentite abbandonate a sé stesse e sono scese pesantemente, molto più degli utili.

  Nel 2023 e nel 2024 i mercati hanno colto l’ambiguità del messaggio proveniente dalle banche centrali. Questo messaggio diceva a parole che la priorità ufficiale era ancora la lotta all’inflazione, ma i comportamenti concreti trasmettevano l’idea che i policy maker non volevano in nessun modo una recessione. In effetti erano così preoccupati dall’idea della recessione da accettare una discesa molto lenta e in tempi indefiniti dell’inflazione. Nella pratica, quindi, la vera priorità era di nuovo la massimizzazione della crescita. Le borse, di conseguenza, hanno ripreso a salire, confortate dalla ripresa degli utili e da un’inflazione che, anche se lentamente e in modo irregolare, scendeva.

  Come si profila il 2025? Le previsioni ufficiali, come quelle del Fondo Monetario Internazionale, lo descrivono come un anno di stabilità, tanto nella crescita quanto nell’inflazione, posizionata leggermente al di sopra degli obiettivi ufficiali ma sotto controllo.

  Ma non bastano le previsioni. Ai mercati infatti interessa molto l’orientamento, ovvero quello che i policy maker sono intenzionati e disponibili a fare in una direzione o nell’altra.

   Bene, l’orientamento dei governi è decisamente procrescita. L’amministrazione Trump vorrebbe addirittura uno shock di crescita, basato su tagli delle tasse, deregulation per le imprese e forte aumento della produzione di energie fossili. In Europa si discute di un programma di spesa comune dedicato alla sicurezza, mentre in Germania si preparano a governare forze più attente alle esigenze dell’industria tedesca di quanto non sia stata la coalizione attuale. Infine, la Cina adotta ormai ufficialmente un orientamento espansivo, tanto fiscale quanto monetario.

  Quanto alle banche centrali, non ci sono ostacoli all’orientamento espansivo in Europa e in Cina. L’Europa, del resto, non dovrebbe avere seri problemi d’inflazione. Dovesse averli, li metterebbe in secondo piano. La Cina ha ora problemi di deflazione, non di inflazione, ed è una certezza che darà la priorità alla crescita. 

  Resta la Fed, che si dichiara soddisfatta dell’equilibrio raggiunto tra inflazione e crescita e fa capire che intende mantenerlo nei prossimi mesi, con una certa particolare attenzione al mercato del lavoro. Qui potremmo assistere da una parte a qualche modesto indebolimento dell’occupazione, ma dall’altra, a causa del declino dei flussi migratori, potremmo anche vedere una certa ripresa dell’inflazione salariale. Questi due fenomeni potrebbero anche presentarsi insieme e complicare le scelte della Fed.

  Riassumendo, a livello globale prevale decisamente l’orientamento a dare la priorità alla crescita. Negli Stati Uniti l’intenzione è la stessa, ma c’è anche un’attenzione a non lasciare spazio all’inflazione. La stessa amministrazione Trump è consapevole di essere stata votata da elettori che non vogliono in nessun modo una ripresa dei prezzi e dovrà muoversi con cautela.

  Per i mercati azionari tutto questo si traduce nell’attesa di un 2025 positivo, come è evidente dai livelli raggiunti, dai flussi di acquisti molto ampi e dalle attese sugli utili molto elevate. In assenza di shock geopolitici e di una ripresa dell’inflazione le borse continueranno dunque a salire. Saranno però più vulnerabili, rispetto a quello che abbiamo visto negli ultimi due anni, in caso di aumento dell’inflazione salariale americana o di conseguenze sui prezzi al consumo dei dazi che la nuova amministrazione introdurrà non appena insediata. Mercati positivi, insomma, ma con più volatilità.


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