Esteri
Il lato oscuro del turismo: il caso Jonestown
Barbara Leone
È passato quasi mezzo secolo dal tragico omicidio-suicidio di massa orchestrato dal reverendo Jim Jones nella remota giungla della Guyana, un evento che ha strappato alla vita più di 900 persone, tra cui molti bambini.
Ora, l'idea di trasformare quel luogo, Jonestown, in un'attrazione turistica sostenuta dal governo solleva interrogativi profondi, vecchie ferite e critiche accese.
Il lato oscuro del turismo: il caso Jonestown
Il tentativo di capitalizzare su una delle tragedie più sconvolgenti della storia moderna appare a molti come un esempio inquietante di ''turismo del dolore'', fenomeno che da anni alimenta discussioni etiche e culturali. Il piano, proposto da un tour operator privato e appoggiato dal governo della Guyana, mira a trasportare i visitatori nella località di Port Kaituma, un remoto villaggio immerso nella giungla del paese sudamericano.
Da lì, un percorso impervio porta fino ai resti di Jonestown, un tempo insediamento agricolo e comunità utopica. Oggi, di quell'insediamento rimangono solo pochi frammenti: parti del padiglione principale, un trattore arrugginito e il ricordo di un luogo divenuto simbolo di manipolazione e tragedia. Nonostante il sostegno ufficiale, il progetto è stato accolto con scetticismo e indignazione.
Neville Bissember, professore di legge all'Università della Guyana, ha definito il tour una proposta “macabra e bizzarra”. In una lettera pubblica, ha scritto: ''Quale parte della cultura della Guyana è rappresentata da un luogo dove si è consumata una delle peggiori atrocità della storia recente? Questo evento non ha nulla a che vedere con il nostro popolo e la nostra identità''. Anche Jordan Vilchez, una delle sopravvissute al massacro e testimone diretta degli eventi, ha espresso sentimenti contrastanti. ''La Guyana ha il diritto di trarre profitto da un progetto come questo - ha detto -, ma ogni situazione in cui le persone sono state manipolate fino alla morte deve essere trattata con rispetto''.
La proposta di trasformare Jonestown in una destinazione turistica non è un caso isolato. E’ il cosiddetto tanaturismo, o dark tourism, o più banalmente turismo dell’orrore, che vede luoghi legati a tragedie o crimini diventare meta di curiosi e visitatori. Un trend diffuso anche in Italia. Località come Cogne, Avetrana, Perugia, Firenze, e turistiche come l'Isola del Giglio o Rigopiano, hanno attirato negli anni centinaia e centinaia di curiosi. Episodi di cronaca nera come quelli di Cogne, con l’omicidio del piccolo Samuele Lorenzi nel 2001, o di Novi Ligure, dove nel 2002 Erika De Nardo e Omar Favaro uccisero la madre e il fratello di Erika, hanno trasformato questi luoghi in destinazioni di macabro interesse.
Ancor oggi, la palazzina di Erba teatro della strage compiuta da Olindo Romano e Rosa Bazzi nel 2006, e la villetta di Perugia dove fu uccisa Meredith Kercher, continuano a richiamare curiosi. Fino ad arrivare ad Avetrana, ove probabilmente il turismo dell’orrore ha raggiunto il suo stomachevole acme. Alla morbosità di taluni, non sfuggono nemmeno le grandi tragedie, come il disastro del Vajont nel 1963, il naufragio della Costa Concordia nel 2012 all'Isola del Giglio, o la valanga che distrusse l’hotel Rigopiano nel 2017.
Per non parlare della creazione del gioco da tavola Merendopoli, ispirato ai delitti del Mostro di Firenze, che negli anni ’80 e ’90 aveva già attirato curiosi sui luoghi degli omicidi, come la Piazzola degli Scopeti, dove avvenne l’ultimo duplice delitto.
Insomma, ce n’è per tutti i gusti anche qui da noi. Sarà per questo che oggi, alcuni sostenitori del progetto in Guyana, come Rose Sewcharran, direttrice del tour operator Wonderlust Adventures, sostengono che in fondo non c’è niente di male nel voler monetizzare una tragedia perché, dice, ''Questo accade in tutto il mondo”. E per convincere i detrattori ancora di più la spara ancor più grossa: ''Abbiamo esempi come Auschwitz e il museo dell’Olocausto''. Non per insistere, ma paragonare Jonestown a luoghi come Auschwitz – dove il turismo è finalizzato alla memoria e all’educazione storica – sembra leggermente (ma proprio leggermente) riduttivo e fuori luogo. C'è poi la bislacca idea di ricostruire gli edifici originali, inclusa la casa di Jim Jones, proposta da alcuni promotori del progetto.
''Permetterebbe ai turisti di avere una comprensione diretta della disposizione del luogo'', ha affermato Gerry Gouveia, pilota e sostenitore dell’iniziativa. Ma la domanda che emerge è: a quale scopo? Ricostruire Jonestown non rischia di trasformare un luogo di morte in una macabra attrazione da parco tematico?
Come ha osservato Vilchez, ''ogni gesto legato a Jonestown dovrebbe rendere omaggio alle persone morte”, non sfruttarle per fini commerciali''.
Vero è che la Guyana, che solo di recente ha visto una crescita economica grazie alla scoperta di giacimenti petroliferi, sta cercando di attrarre turisti. Ma basare parte della sua strategia su una tragedia così profonda appare, per molti, un errore.
L’idea di ''vendere'' Jonestown come attrazione turistica alimenta il dibattito su come la memoria storica debba essere gestita e rispettata. Il rischio è che la curiosità morbosa e il desiderio di documentare l’orrore con foto e selfie prendano il sopravvento sul significato autentico di quel luogo. Un luogo che dovrebbe essere un monito contro i pericoli della manipolazione e del fanatismo, e non un’altra tappa per il turismo del dolore. Alla fine, il futuro di Jonestown resta incerto.
Ma una cosa è chiara: trasformare una tragedia umana di tale portata in business non è solo discutibile, ma rischia di cancellare il rispetto dovuto alle vittime e alle loro famiglie. E in un mondo dove troppo spesso l’orrore viene trasformato in intrattenimento, la memoria deve essere salvaguardata come un valore sacro, non come un'opportunità di marketing.