Guardando alla seconda metà del 2024 e oltre, monitoriamo il deficit spending dei governi e il potenziale che questo possa alimentare l'aumento dei tassi. Per sostenere le loro economie nel momento più acuto della pandemia di COVID, i governi delle economie sviluppate si sono impegnati in campagne di stimolo fiscale senza precedenti. A quattro anni di distanza, la spesa massiccia non è ancora stata contenuta. La logica può essere giustificata, ma la mancata adozione della disciplina fiscale potrebbe, alla fine, ritorcersi contro i governi sotto forma di un aumento dei costi di indebitamento.
I governi sono stati lenti nel ridurre i deficit per due motivi:
- Per proteggere la ripresa economica da ulteriori shock (ad esempio, la spesa pubblica europea per proteggere i consumatori da un'impennata dei prezzi del gas).
- Il cambiamento climatico e la difesa rappresentano nuove esigenze strutturali per la spesa pubblica.
Inoltre, i politici tendono a spendere durante gli anni di campagna elettorale e il massiccio numero di elezioni che si terranno quest’anno nei paesi sviluppati ha ostacolato il contenimento fiscale. I dati di LSEG Datastream mostrano che il disavanzo corretto per il ciclo delle economie sviluppate è pari a quasi il 7% del PIL stimato: si tratta di un valore pari a quello registrato durante la crisi finanziaria globale e solo marginalmente migliore rispetto ai deficit di bilancio registrati durante la pandemia.
Peggioramento delle dinamiche del deficit
Negli ultimi due anni, l'85% delle economie sviluppate ha registrato uno scostamento di bilancio. Secondo i nostri calcoli, in questo arco di tempo si è registrato uno scostamento medio del 4,5% del PIL. In parole povere, per scostamento di bilancio si intende qualsiasi deviazione del piano di consolidamento fiscale di un governo rispetto a quanto pianificato. Preoccupante è il fatto che questi grandi deficit si siano verificati in un momento in cui la crescita nominale è in piena espansione grazie alla forte dinamica dell'inflazione. Questa forte crescita nominale ha incrementato il gettito fiscale dei Paesi, ma i governi non hanno risparmiato il dividendo dell'inflazione, bensì lo hanno speso, fattore che implica un significativo deterioramento della resilienza fiscale.
Evidenze del riprezzamento del rischio fiscale da parte del mercato
Se è vero che l'inflazione nel Regno Unito è rimasta elevata, è anche vero che i Gilt non si sono ancora ripresi del tutto dalla debacle del mini-bilancio del 2022. Inoltre, gli investitori hanno chiaramente rivalutato il debito francese, con un allargamento degli spread rispetto a Germania e Olanda, e una riduzione rispetto a Paesi come la Spagna, che presenta un livello di debito simile ma una dinamica del deficit più forte.
Nel complesso, tuttavia, il mercato sembra relativamente tranquillo riguardo al rischio fiscale, nonostante il numero di notizie negativi sul deficit sia in aumento. Ciò potrebbe essere dovuto al fatto che il mercato si concentra maggiormente sul rapporto debito pubblico/PIL. In Europa, vi è una forte evidenza che gli spread dei Paesi sono più correlati alla variazione del rapporto debito pubblico/PIL che ai dati sul deficit. Il rapporto debito/PIL è stato molto più favorevole di quanto lo slittamento del disavanzo possa far pensare, dal momento che i premi a termine rimangono relativamente bassi, limitando l'aumento del costo degli interessi, e per via della forte crescita del PIL nominale, che ha contribuito a far scendere questi rapporti (effetto denominatore).
Implicazioni per i costi del debito pubblico
Se i premi a termine dovessero aumentare in modo più significativo o se il PIL nominale dovesse subire un'inversione di tendenza, queste solide dinamiche nel rapporto debito pubblico/PIL svanirebbero rapidamente e il mercato potrebbe prenderne atto. Un peggioramento del PIL nominale è particolarmente influente perché ha un impatto immediato, mentre l'aumento dei premi a termine fa salire il costo medio degli interessi lentamente, date le scadenze più lunghe del debito. Prima di un aumento più significativo dei premi a termine o di un deterioramento della crescita nominale, sarebbe probabilmente necessario che la politica monetaria viri verso un atteggiamento più aggressivo.
Le banche centrali dei mercati sviluppati hanno considerato l'inflazione elevata come un fenomeno in gran parte determinato dall'offerta, che dovrebbe quindi normalizzarsi nel tempo, a patto che non si verifichino dei “second round effect” sulle aspettative di inflazione e sui salari. Di conseguenza, i policymaker sono stati riluttanti a inasprire la politica a livelli tali da spingere la crescita al di sotto del trend e creare le grandi quantità di allentamento necessarie per riportare l'inflazione in linea con i loro target. Se la situazione dovesse cambiare - magari in seguito a una rivalutazione dei rischi legati all'inflazione - e la politica monetaria diventasse più restrittiva rispetto ai dati sulla crescita e sull'inflazione, questo potrebbe essere l’evento catalizzatore per far sì che il mercato si preoccupi maggiormente di tali dinamiche fiscali, soprattutto negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Francia, dove i livelli sembrano più suscettibili.