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Scaffali vuoti negli Stati Uniti: il commercio dovrà farsi ancora più pragmatico?

a cura di Anthony Willis, Investment Manager di Columbia Threadneedle Investments
 
Scaffali vuoti negli Stati Uniti: il commercio dovrà farsi ancora più pragmatico?

La scorsa settimana, il presidente della Federal Reserve Powell ha dichiarato che i dazi del Presidente Trump "probabilmente" metteranno a rischio gli obiettivi della Fed di mantenere sotto controllo i prezzi e la disoccupazione. Powell ha anche affermato che i dazi finora annunciati sono stati “significativamente più ampi del previsto” e che “è probabile che lo stesso valga per gli effetti economici, che includeranno un'inflazione più alta e una crescita più lenta”. Infine, il presidente della Fed ha messo in guardia sulla necessità di "mantenere ben ancorate le aspettative di inflazione a lungo termine" e di assicurarsi che un aumento dei prezzi una tantum, dovuto alle tariffe, "non diventi un problema di inflazione continua".

 

Il discorso di Powell sembra aver irritato il Presidente statunitense, che ha prontamente ribattuto come la fine del mandato di Powell “non arriverà mai abbastanza presto” e ha postato sui social che il presidente della Fed è “sempre troppo in ritardo e in errore”. Sebbene Powell sia stato nominato da Trump durante il suo primo mandato, è evidente che, con i rischi di inflazione derivanti dai dazi all'orizzonte, Powell, uno dei 12 membri del comitato per la determinazione dei tassi di interesse della Fed, sia intenzionato ad attuare una strategia “Wait and see”.

I mercati statunitensi hanno registrato forti ribassi, ma martedì sera i toni del Presidente Trump sono cambiati. Licenziare il presidente della Fed sarebbe un'azione molto rischiosa dal punto di vista legale e, sul piano dei mercati, un'interferenza nella leadership della banca centrale comprometterebbe ulteriormente la già fragile fiducia. Martedì sera, Trump ha chiarito di “non avere alcuna intenzione di licenziare” Powell, aggiungendo che “i media si lasciano andare a speculazioni su cose che non sono accadute. No, non ho intenzione di licenziarlo. Vorrei solo vederlo più attivo nel promuovere una diminuzione dei tassi di interesse”.

 

Negli ultimi giorni sono emersi commenti più ottimisti riguardo a potenziali accordi commerciali sia con l’Unione Europea che con la Cina. Il Presidente Trump, infatti, ha affermato che l’attuale livello di tariffe del 145% applicato alla Cina “verrà sostanzialmente ridotto”. Anche il Segretario al Tesoro, Scott Bessent, avrebbe dichiarato durante un evento privato che l’attuale situazione di stallo con la Cina è "insostenibile" e che si attende una "de-escalation". Per quanto riguarda l’Europa, i toni di Trump si sono ammorbiditi e ha dichiarato che ci sarà “al 100%” un accordo commerciale.

 

Nelle prossime settimane ci aspettiamo ci saranno importanti sviluppi, considerando la complessità degli accordi commerciali e le difficoltà insite nei negoziati. Nel fine settimana, Trump ha annunciato l’intenzione di presentare "200 accordi commerciali" entro le prossime 3-4 settimane. Tuttavia, i primi colloqui tra Stati Uniti e Unione Europea sono apparsi poco promettenti: l'inviato UE per il commercio, Maroš Šefčovič, ha ammesso di aver “faticato a comprendere gli obiettivi degli Stati Uniti”. Nel frattempo, la Cina ha negato l’esistenza di negoziati in corso.

Storicamente, gli Stati Uniti impiegano circa 18 mesi per negoziare un accordo commerciale e altri 45 mesi per attuarlo. Tentare di negoziare contemporaneamente con 90 Paesi appare quindi irrealistico. Questo scenario apre la strada a due possibilità: la firma di accordi prevalentemente simbolici oppure un processo lungo e complesso, con un conseguente aumento del rischio di danni significativi per l’economia globale, e in particolare per quella statunitense.

 

Stiamo già assistendo ad un marcato calo dei volumi di spedizione dalla Cina agli Stati Uniti, con diverse navi portacontainer che risultano ancorate al largo di Los Angeles, in attesa di scaricare merci cinesi nella speranza di un abbassamento delle tariffe. Con l’esaurimento delle scorte negli Stati Uniti, cresce il rischio di vedere gli scaffali vuoti ed il conseguente aumento dei prezzi. Una simile dinamica potrebbe avere effetti negativi sul sentiment dei consumatori e, di riflesso, sull’indice di gradimento presidenziale.

 

Analizzare una situazione fluida come quella dei dazi, valutandone portata e durata, è un compito complesso. Le politiche del Presidente Trump potrebbero rivelarsi temporanee per alcuni partner commerciali, ma restano aperti molti scenari: da una guerra commerciale conclamata, con rischio di recessione, a un ritorno al libero scambio, seppur con un livello di dazi statunitensi tra i più alti degli ultimi 90 anni. Gli effetti si manifesteranno sia sulla crescita che sull'inflazione negli Stati Uniti, con impatti differenziati a seconda dei Paesi. Anche in caso di attenuazione delle tensioni, il periodo di 90 giorni previsto per i negoziati rischia di danneggiare comunque le catene di approvvigionamento. Nel frattempo, i dati sulla fiducia di imprese e consumatori continuano a risentirne e la tariffa globale del 10% resta pienamente in vigore.

 

I mercati hanno registrato una solida performance la scorsa settimana, sostenuti da un rinnovato ottimismo sulle tariffe e dal dietrofront del Presidente riguardo alle minacce di rimuovere Powell. Dopo un periodo di forte debolezza, qualsiasi miglioramento del sentiment ha buone probabilità di rafforzare ulteriormente il momentum. Tuttavia, sarà fondamentale l’arrivo di notizie concrete su accordi commerciali o segnali di distensione: senza progressi reali, il rischio di gravi conseguenze economiche rimane elevato, non solo per Stati Uniti e Cina, ma anche per l’economia globale.

 

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