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Kairos Partners SGR: market flash di martedì 18 marzo 2025

di Alberto Tocchio, head of Global Equity and Thematics
 
Kairos Partners SGR: market flash di martedì 18 marzo 2025

Durante la scorsa settimana, l’indice SPX è arrivato a registrare un calo di poco superiore al 10% dai massimi, mentre il NDX ha perso il 15%. Sebbene movimenti di questa entità possano sembrare insoliti rispetto alla recente stabilità del mercato, non si tratta di eventi straordinari: negli ultimi 60 anni si sono verificate ben 28 correzioni di questa portata. Tuttavia, ciò che ha colpito maggiormente gli investitori è stata la rapidità del ribasso e, soprattutto, la debolezza dei cosiddetti "Magnifici 7" e del fattore Momentum, entrambi estremamente popolari fino a poche settimane fa.

Da inizio anno, l’azionario globale, misurato dall’MSCI World, è ora in calo di circa il 2%, il dollaro ha perso oltre il 4%, il petrolio ha registrato una flessione del 7% e il mondo delle criptovalute ha subito un crollo di oltre il 30%. Nel complesso, gli indici statunitensi stanno mostrando una delle peggiori performance di sempre all’inizio di un mandato presidenziale. In controtendenza, l’oro si conferma l’asset più performante, con un rialzo del 14%, risultando quattro volte più redditizio rispetto all’SPX negli ultimi dodici mesi.

Come previsto circa un mese fa, avevamo adottato un approccio prudente nel breve termine, consapevoli che il posizionamento degli investitori fosse già elevato e che il mercato stesse scontando uno scenario eccessivamente ottimistico. L’idea prevalente di mercato era quella della cosiddetta "Trump put", ovvero la possibilità che il nuovo presidente potesse introdurre misure di supporto ai mercati, considerato il suo atteggiamento favorevole agli interessi di Wall Street. Tuttavia, la realtà si è rivelata ben diversa: cosa è successo?

La debolezza del settore tecnologico è iniziata con l’arrivo di Deepseek, ma si è accentuata con il peggioramento dei dati macroeconomici e il crescente clima di incertezza geopolitica, il più alto degli ultimi decenni, alimentato anche dalla politica aggressiva di Trump sui dazi. Inoltre, le probabilità di una recessione negli Stati Uniti entro la fine dell’anno, inizialmente molto basse, sono ora stimate da alcune metriche intorno al 40%. A tutto questo si aggiungono segnali più cauti sulla tenuta dei consumi in diversi settori e un rapido calo della popolarità sia di Trump che di Elon Musk. Quest’ultimo, peraltro, sembra già essersi scontrato con il segretario di Stato Rubio, contribuendo a un clima di ulteriore instabilità.
I "Magnifici 7" hanno perso complessivamente il 18%, con Tesla che ha visto il proprio valore dimezzarsi rispetto ai massimi di metà dicembre. Ancora più significativa è stata la flessione del fattore Momentum, che ha registrato perdite intorno al 30%, con alcuni titoli particolarmente amati dai piccoli investitori statunitensi che hanno subito cali superiori al 50%.

Dal punto di vista macroeconomico, se in precedenza avevamo osservato il dato ISM e alcuni indicatori del settore immobiliare, negli ultimi giorni si è aggiunto un forte calo della fiducia dei consumatori, influenzato dall’aumento delle aspettative di inflazione, le più alte degli ultimi 35 anni, e dai timori di un incremento della disoccupazione ai livelli del 2009.

A livello di flussi di mercato, i primi a vendere sono stati i fondi sistematici e macro, noti per la loro rapidità di esecuzione e responsabili di circa la metà dei volumi. Successivamente, nelle ultime quattro settimane, anche i fondi hedge hanno avviato una rapida riduzione della loro esposizione, mentre gli investitori retail, che avevano acquistato in modo aggressivo a inizio anno – soprattutto strumenti a leva – si sono trovati costretti a liquidare le loro posizioni. Negli ultimi giorni, persino i fondi long-only hanno iniziato a ridurre le loro esposizioni a causa di un cambiamento radicale nelle misure di rischio.

Tuttavia, sembra che il grosso delle vendite sia ormai avvenuto e che il mercato statunitense abbia subito un reset salutare, piuttosto che l’inizio di un vero e proprio mercato ribassista. A conferma di ciò, negli ultimi giorni si è registrato un volume record nell’acquisto di opzioni put a copertura dei portafogli, mentre alcuni indicatori di sentiment, come l’indice di investitori bearish calcolato dall’AAII (American Association of Individual Investors), hanno raggiunto il secondo livello più alto di sempre.

Se volgiamo lo sguardo verso la Cina, vediamo che l’Hang Seng è in rialzo di quasi il 20% da inizio anno, mentre in Europa i principali indici hanno guadagnato oltre il 10%, con il DAX che ha sovraperformato il NDX di ben il 26%. Inoltre, il settore dei titoli ciclici europei ha superato la performance di quelli statunitensi del 30% in soli due mesi.
Si conferma, quindi, una tendenza sempre più marcata di allontanamento dall’eccezionalità del mercato statunitense a favore di aree geografiche con maggiori prospettive di crescita economica. A questo si aggiunge il deprezzamento del dollaro, che potrebbe favorire ulteriori flussi di investimento verso i mercati internazionali.

Un dato interessante riguarda i volumi di capitali affluiti in Europa: in termini di ETF, si sono raggiunti i livelli più alti degli ultimi dieci anni, mentre i volumi di scambio sia su titoli singoli che sulle opzioni calls sono più che raddoppiati rispetto alla media stagionale. Se consideriamo che, dall’inizio della guerra in Ucraina, sono usciti circa 250 miliardi di dollari dal mercato europeo e che, solo da inizio anno, ne sono già rientrati tra il 15 e il 20%, possiamo ipotizzare che ci sia ancora ampio margine di recupero. Se le notizie continueranno a essere positive, potremmo assistere a un ulteriore rientro di capitali di entità analoga a quella vista finora da inizio anno.

Analizziamo insieme tre eventi chiave che nei prossimi mesi potrebbero determinare la direzione dei mercati, partendo dal tema dei dazi. La scadenza del 2 aprile si avvicina rapidamente e il rischio di un'escalation è sempre più concreto: non si parla più solo di minacce, ma di tariffe effettive su acciaio e alluminio, con Trump che ha già espresso chiaramente la sua intenzione di colpire anche l’Europa. Il numero di beni coinvolti dai dazi è ormai più che triplicato rispetto al primo mandato dell’ex presidente, alimentando timori e incertezze.
Stimare con precisione l’impatto economico dei dazi è complesso, soprattutto in un’economia globalizzata come quella attuale. Tuttavia, se da un lato Trump sostiene che queste misure possono rafforzare l’economia statunitense, la storia suggerisce il contrario: negli ultimi 50 anni, le barriere tariffarie imposte dai singoli Paesi hanno generalmente avuto un effetto negativo sulla crescita economica, con un impatto tanto più significativo quanto maggiore è stata l’entità delle tariffe. A questo proposito, vale la pena riascoltare il famoso discorso di Ronald Reagan sui dazi, tornato oggi di grande attualità.

L’incertezza generata dalle politiche di Trump non è stata ben accolta dai mercati, soprattutto perché si combina con il rischio di un ritorno dell’inflazione. Aziende come Boeing e Lilly hanno recentemente segnalato questa criticità, evidenziando che quest’ultima dovrà investire almeno 27 miliardi di dollari per costruire nuovi impianti di produzione negli Stati Uniti. Nel breve termine, le grandi aziende possono permettersi di trasferire questi costi ai consumatori, ma per molte piccole e medie imprese la situazione è più critica: il timore è che non riescano a sostenere l’aumento dei costi di produzione e sopravvivere in un contesto sempre più ostile.

Il secondo evento chiave riguarda la riforma fiscale in Germania, che sembra ormai vicina alla sua approvazione. Se confermata, questa riforma potrebbe segnare un punto di svolta storico, rappresentando una sorta di “whatever it takes” per gli investimenti in infrastrutture e difesa, superando il tetto costituzionale del debito tedesco. Oggi è atteso il voto del Bundestag, mentre venerdì si pronuncerà il Bundesrat: si tratta di una corsa contro il tempo, dato che il 24 marzo scadrà la vecchia composizione del Bundestag, necessaria a Friedrich Merz per ottenere la maggioranza qualificata dei due terzi e procedere con una modifica costituzionale.

L’impatto economico di questa riforma sarebbe significativo: si parla di una spesa di 400 miliardi di euro per la difesa e 500 miliardi per le infrastrutture nei prossimi dieci anni, un intervento pari al 21% del PIL tedesco che potrebbe dare una forte spinta non solo alla Germania, ma all’intera economia europea. Un pacchetto di queste dimensioni potrebbe offrire opportunità di investimento interessanti, non solo sugli indici principali, ma anche su titoli a media e bassa capitalizzazione, che beneficerebbero in misura ancora maggiore degli stimoli fiscali.

Infine, il terzo grande tema riguarda il tentativo di accordo in Ucraina. Trump non sembra intenzionato semplicemente a porre fine al conflitto, ma sembra avere in mente una ridefinizione degli equilibri globali, con l’Europa che rischia di essere sacrificata in questo processo. Questa prospettiva ha però avuto un effetto inaspettato: ha risvegliato il continente europeo, spingendolo a riconsiderare il proprio ruolo strategico.

Lo scorso settembre, Mario Draghi aveva presentato un piano di crescita per l’Europa, che all’epoca era passato quasi inosservato, ma che oggi appare più attuale che mai. Il piano puntava su tre aspetti fondamentali: colmare il gap sull’innovazione, ridurre i costi energetici per migliorare la competitività e aumentare la spesa per la sicurezza, rendendo l’Europa meno dipendente da attori esterni.

Il primo passo concreto in questa direzione sarà il piano per la difesa comune, che la Commissione Europea presenterà domani. Seguirà nei giorni successivi l’implementazione di un fondo comune per gli investimenti nel settore degli armamenti, un’area che ha già registrato una crescita impressionante: dall’inizio dell’anno, il comparto ha guadagnato oltre l’80%, con investimenti concreti nella riconversione industriale verso la produzione militare. Un esempio significativo è quello di Rheinmetall, il più grande produttore di armi europeo, che sta valutando l’acquisto di una delle tre fabbriche che Volkswagen ha deciso di chiudere. Un’operazione di questo tipo non solo tutelerebbe i lavoratori coinvolti, ma potrebbe segnare l’inizio di un ciclo di investimenti europei nel settore, in un contesto in cui i tassi sono in rialzo e il rendimento del Bund tedesco a 10 anni ha raggiunto il 3%, il livello più alto degli ultimi 15 anni.

Ironia della sorte, proprio mentre l’Europa torna a investire massicciamente nella difesa, il settore automobilistico sta affrontando una crisi profonda. L’entusiasmo per l’auto elettrica sembra svanire, come dimostra la bancarotta di Northvolt, l’ultima grande azienda europea produttrice di batterie, rimasta senza ordini e senza finanziatori.

In conclusione, ci troviamo di fronte a un mercato estremamente dinamico e influenzato da questi tre eventi cruciali. Questa settimana sarà particolarmente importante per gli investitori, con il meeting della Federal Reserve e di altre tre grandi banche centrali. Attualmente, i mercati stanno prezzando con una probabilità di poco superiore al 50% un primo taglio dei tassi a maggio, con la possibilità di altri due interventi entro la fine dell’anno. Tuttavia, la sensazione è che la Fed voglia guadagnare tempo, preferendo attendere i prossimi dati macroeconomici prima di prendere decisioni definitive.

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