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BANOR: La tassa sul pollo e le promesse di Trump

di Angelo Meda (responsabile azionario BANOR)
 
La scorsa settimana abbiamo assistito al tanto atteso spettacolo politico quadriennale, conclusosi con una piccola delusione per i media: le aspettative erano per una corsa tra Kamala Harris e Donald Trump più incerta e con strascichi che avrebbero potuto durare mesi e invece, già alle 7:00 ora italiana del giorno successivo, il verdetto era ormai scritto. Il “muro blu” che aveva fatto vincere Joe Biden nel 2020 si è trasformato in un “muro quasi interamente rosso”, con l’asse nord-orientale degli USA (Wisconsin, Michigan, Pennsylvania) che ha cambiato colore, consentendo al candidato repubblicano di ottenere una facile vittoria, consolidata anche dal voto popolare che ha visto Trump raggiungere il 50,4% dei voti totali degli americani.

Siamo ancora in attesa dei risultati finali, ma i repubblicani sembrano destinati ad avere la maggioranza sia alla Camera che al Senato, certificando così il republican sweep (il “cappotto repubblicano”), ovvero il controllo sia del ramo legislativo che di quello esecutivo del governo americano nelle mani di un solo partito, almeno per due anni, in attesa delle elezioni di medio termine, che prevedono il rinnovo totale della Camera e di un terzo del Senato. I mercati scontavano questa probabilità al 40% e soprattutto non si aspettavano una chiara, netta e rapida vittoria del fronte repubblicano. L’attenzione quindi ora si sposta dall’evento all’implementazione delle promesse elettorali: dobbiamo sempre ricordarci che i mercati vivono di umori e aspettative, per cui è normale vedere salire attività come il Bitcoin e il titolo Tesla, unitamente ad altre attività finanziarie, sulla base del principio ben sintetizzato dall’acronimo FOMO (Fear of missing out), che esprime la paura di essere esclusi. Ma il piatto forte che determinerà il destino dei mercati per i prossimi anni è quello dei dazi e delle politiche protezionistiche promesse da Trump in campagna elettorale: stiamo parlando di un 10%-20% su tutte le importazioni di beni in ingresso nel Paese e di un 60-100% per i prodotti importati dalla Cina.

La mente torna quindi alla tassa sul pollo e agli effetti che ha avuto negli ultimi sessant’anni di storia.

Nel dopoguerra, l’allevamento intensivo di polli in USA aveva portato a un crollo del prezzo della carne di pollo e le sue esportazioni in Europa avevano, da un lato, spinto i consumi di carne bianca, rendendola più conveniente, ma, dall’altro lato, avevano messo in difficoltà i produttori europei, non ancora attrezzati per allevamenti intensivi. Fu così che diversi Paesi europei stabilirono delle tariffe all’import di pollo dagli USA, causando un crollo delle esportazioni americane nel mercato unico europeo del 25%. Nel 1963 quindi il presidente USA Lyndon Johnson impose una tariffa del 25% alle importazioni di brandy, fecola di patate e autocarri leggeri (light trucks). Questa tassa fu chiamata “tassa del pollo” e oggi è tuttora in vigore. L’impatto più importante è stato ovviamente sui light trucks, dove Ford grazie a questa politica ha costruito una posizione dominante nel tempo con i modelli della serie F (F150, F250, …).

La politica industriale americana è ora a un bivio. Da un lato Trump potrebbe voler usare questi dazi come una minaccia per negoziare trattati bilaterali con vari Paesi, partendo da una posizione di forza. Dall’altro lato potrebbe veramente costruire una barriera doganale verso le merci in arrivo, per ripetere quanto avvenuto con Ford e re-industrializzare così il Paese, obbligando tante industrie a riportare la produzione negli Stati Uniti per rimanere competitive sul mercato più grande del mondo.

È ovviamente ancora presto per capire quali potrebbero essere le reali intenzioni e, soprattutto, quali potrebbero essere gli impatti sulla crescita economica e sull’inflazione: nella sua precedente elezione, Trump impose i primi dazi solo a gennaio 2018, un anno dopo il suo giuramento, e solamente su poche categorie di prodotto, aumentate poi nei sei mesi successivi.

Questa incertezza sta rallentando gli investimenti in macchinari un po’ in tutto il mondo e, probabilmente, sta anche bloccando i programmi di stimolo economico in Cina. Nella conferenza stampa di venerdì scorso il ministro delle finanze cinese Lan Fo’an, dopo aver annunciato un piano per risolvere il tema del debito locale, ha promesso azioni più incisive il prossimo anno, spiegando come il governo cinese preferisca aspettare l’implementazione delle politiche di Trump prima di decidere dove e come intervenire.

Siamo quindi in una fase di regno di mezzo, in cui Joe Biden ha poteri sulla carta ancora illimitati, ma di fatto una scarsa influenza politica, dato che mancano due mesi alla cerimonia per l’insediamento del nuovo Presidente. In gergo si dice che ora Biden è una lame duck, un’anatra zoppa. Questa fase di inerzia aiuta i mercati nel breve periodo, avendo eliminato le incertezze sull’esito politico delle elezioni e dando tutto il potere al partito repubblicano, ma prepara la strada a una fase più incerta che vivremo dopo l’insediamento di Trump, quando capiremo cosa rimarrà una promessa elettorale e cosa invece verrà implementato e quale sarà il grado di negoziazione possibile.
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