In primo piano su tutti i media internazionali le sorti della Global Sumud Flotilla. Secondo quanto riportato dalla CNN, delle 44 imbarcazioni partite solo quattro risultavano ancora in navigazione alle 12:15 ora locale (5:15 ET), tracciate dal sito ufficiale della flottiglia. Due di queste – la Shireen e la Summertime-Jong – sono state identificate come navi di supporto legale, mentre le altre due, la Mikeno e la Marinette, erano le uniche ancora in rotta verso la Striscia.
World Media Headlines: Flottilla, 39 le imbarcazioni bloccate da Israele
Giovedì mattina la Mikeno sembrava essersi avvicinata sensibilmente alla costa di Gaza, mentre la Marinette procedeva più al largo, parallela alle coste egiziane. Nella serata di ieri, le forze israeliane avevano già intercettato parte della flottiglia, suscitando un’ondata di proteste e condanne a livello internazionale. L’organizzazione promotrice, la GSF, ha definito l’intercettazione un “attacco illegale” contro operatori umanitari, mentre Israele ha ribadito che i partecipanti non erano mossi da finalità umanitarie bensì da intenti provocatori, sottolineando che l’ingresso delle navi nell’area costituirebbe la violazione di un “legittimo blocco navale”. Il caso ha avuto risonanza globale.
Manifestazioni si sono tenute in numerosi paesi, dall’Italia – dove in città come Roma, Pisa, Firenze e Torino la piazza è scesa in solidarietà con Gaza e un importante sindacato ha proclamato uno sciopero generale nazionale per venerdì – alla Turchia, che attraverso il suo ministero degli Esteri ha definito l’intercettazione un vero e proprio “atto di terrorismo”.
Dalla Colombia, il presidente Gustavo Petro ha parlato di “crimine internazionale” attribuendolo al premier israeliano Benjamin Netanyahu e criticando il piano di pace promosso dal presidente statunitense Donald Trump come un progetto costruito “su persone già morte di fame”. Dal Pakistan è arrivata una dura condanna del primo ministro Shehbaz Sharif, che ha chiesto di fermare “questa barbarie” e consentire l’arrivo degli aiuti umanitari, mentre la Gran Bretagna ha mantenuto un tono più cauto, auspicando che gli aiuti vengano consegnati attraverso le organizzazioni sul campo.
Reuters riferisce che la procura di Istanbul ha dichiarato di aver avviato un'indagine sulla detenzione di 24 cittadini turchi sulle imbarcazioni, con accuse che includono privazione della libertà, sequestro di veicoli di trasporto e danneggiamento di proprietà, ha riferito l'agenzia di stampa statale turca Anadolu. Mentre il primo ministro malese Anwar Ibrahim ha condannato le azioni di Israele e ha affermato che le forze israeliane hanno arrestato 23 malesi. Tra le figure di spicco coinvolte nella missione c’è anche Greta Thunberg. L’attivista svedese è stata arrestata insieme ad altri partecipanti, ma il ministero degli Esteri israeliano ha assicurato che “Greta e i suoi amici sono sani e salvi”, come comunicato in un post su X.
Sul fronte diplomatico Jerusalem Post dà ampio spazio al sostegno espresso da diverse nazioni musulmane all’iniziativa di pace annunciata dal presidente statunitense Donald Trump, volta a porre fine a quasi due anni di guerra a Gaza. In un comunicato diffuso dal ministero degli Esteri pakistano, i capi della diplomazia di Pakistan, Giordania, Emirati Arabi Uniti, Indonesia, Turchia, Arabia Saudita, Qatar ed Egitto hanno accolto con favore la leadership americana, ribadendo l’impegno a lavorare con Washington per garantire un accordo che assicuri aiuti umanitari, il rilascio degli ostaggi, il rispetto del diritto al ritorno e l’avvio di una soluzione a due stati. La dichiarazione congiunta porta la firma del Qatar, mediatore centrale nei negoziati, e dell’Arabia Saudita, la cui eventuale normalizzazione con Israele resta un obiettivo strategico sia per Trump che per Netanyahu. L’appoggio del Pakistan, unica potenza nucleare del mondo islamico, ha rafforzato il peso del progetto.
Lo stesso Trump, in una conferenza stampa congiunta, ha elogiato il premier Shehbaz Sharif e il capo di stato maggiore Asim Munir, ringraziandoli per il sostegno totale al piano. Il ruolo di Islamabad, sottolineano diversi analisti interpellati da The Media Line, appare determinante. Secondo Ahsan Qazi, esperto di geopolitica a San Francisco, il coinvolgimento pakistano riflette l’ascesa diplomatica del Paese, oggi al centro dei giochi tra Stati Uniti, Russia e Cina. Una posizione ribadita da Sajjad Azhar, analista di Rawalpindi, che ha parlato di “rara svolta diplomatica” grazie al riconoscimento da parte di Washington.
Per Noureen Akhter dell’Islamabad Policy Research Institute, il sostegno del Pakistan al piano non è una mera concessione ma “una posizione proattiva” volta a garantire diritti e ricostruzione per i palestinesi, mentre l’esperto Ejaz Hussain ha ricordato che la leadership pakistana resta fermamente ancorata alla soluzione dei due stati. Non mancano, tuttavia, le critiche interne. Hafiz Naeem ur Rehman, leader del Jamaat-e-Islami, ha accusato Sharif di essersi schierato con gli oppressori e di aver tradito la volontà della nazione pakistana. Secondo molti oppositori, appoggiare il piano di Trump equivarrebbe di fatto a un riconoscimento implicito di Israele, questione che resta altamente divisiva in Pakistan.
Intanto negli Stati Uniti lo scenario interno è segnato dal caos politico. Come riportato dalla BBC, la Casa Bianca ha annunciato che licenziamenti di massa per i dipendenti federali inizieranno entro due giorni, mentre il paese affronta la prima chiusura del governo in quasi sette anni. Lo shutdown è scattato mercoledì, quando repubblicani e democratici non sono riusciti a trovare un accordo sulla legge di spesa entro la scadenza di mezzanotte. Il voto per porre fine allo stallo è fallito poche ore dopo, lasciando il Congresso paralizzato e con poche prospettive di compromesso. Il vicepresidente JD Vance, accanto alla portavoce della Casa Bianca Karoline Leavitt, ha accusato i democratici di “fare giochi politici”, mentre la stessa Leavitt ha confermato che “a volte bisogna fare cose che non si vogliono fare”, attribuendo la responsabilità della situazione al partito avversario. Il nodo centrale riguarda i fondi per l’assistenza sanitaria.
I democratici chiedono garanzie per i programmi a favore delle fasce più deboli, mentre i repubblicani spingono per un provvedimento tampone che mantenga invariata la spesa fino a metà novembre. Nel frattempo, circa il 40% dei dipendenti federali – oltre 750.000 persone – rischia il congedo forzato senza stipendio, mentre altri lavoratori essenziali, come militari e agenti di frontiera, potrebbero essere costretti a lavorare senza paga fino alla fine della crisi. Secondo le previsioni degli analisti, questa chiusura rischia di essere più lunga di quella del 2018 e potrebbe costare miliardi di dollari all’economia americana. Intanto, i repubblicani hanno fissato per venerdì una nuova votazione su un disegno di legge provvisorio, ma le distanze tra i due partiti restano profonde.