Esteri

La solitudine a Seul si cura con i “minimarket della mente”

Redazione
 
La solitudine a Seul si cura con i “minimarket della mente”

In un angolo apparentemente anonimo di Dongdaemun, nella parte orientale di Seul, un centro comunitario ospita una scena tanto silenziosa quanto rivelatrice. Sotto la luce soffusa di un terzo piano climatizzato, una poltrona massaggiante ronza piano all’ingresso, mentre all’interno dello spazio risuonano solo il ticchettio delicato di un gioco touch, qualche sussurro proveniente dalla zona cucina e il fruscio delle pagine che si voltano.

La solitudine a Seul si cura con i “minimarket della mente”

Non è una spa, né una biblioteca, né un caffè: è uno dei primi quattro “mind convenience store” della capitale sudcoreana, inaugurati a marzo, sperimentazione urbana che sembra uscita da un racconto distopico ma che è invece quanto mai reale. “Minimarket della mente” pensati per chi, nel cuore di una metropoli da quasi dieci milioni di abitanti, non ha nessuno con cui condividere un pranzo, un film, un pensiero. Non serve parlare, né spiegare perché si è lì: si può semplicemente sedersi, prepararsi un ramen istantaneo, immergere i piedi in un pediluvio a infrarossi o farsi cullare da una poltrona massaggiante.

È questa la risposta — o almeno, il tentativo — con cui Seul cerca di far fronte all’epidemia di solitudine che la sta consumando. Una delle frequentatrici del centro di Dongdaemun è Eom Mi-hui, 53 anni, che vive da sola e ha alle spalle una storia di difficoltà psicologiche. «È davvero piacevole», dice seduta davanti al pediluvio. «Il mio corpo non si sente benissimo, quindi penso che mi aiuti». Poi si sposta accanto alla poltrona massaggiante, con movimenti lenti ma familiari. Ha scoperto il centro tramite una newsletter del distretto. «Quando ti senti giù, stare a casa non fa che peggiorare le cose. Non c'è davvero nessun posto dove andare, e anche solo mettersi le scarpe può essere difficile. Ma quando c'è un posto come questo, penso: “Ci vado”, e uscirne sembra più facile», racconta Eom in un'intervista raccolta dal Guardian.

Il progetto si inserisce nell’iniziativa quinquennale “Seul senza solitudine”, fortemente voluta dal sindaco Oh Se-hoon. Avviata a fine 2023 con un investimento di 451,3 miliardi di won (pari a circa 242 milioni di sterline), ha l’obiettivo dichiarato di contrastare non solo l’isolamento fisico, ma la solitudine come condizione emotiva persistente, quella che precede la disconnessione vera e propria. «Bassi livelli di felicità, alti tassi di suicidio e depressione sono tutti correlati alla solitudine», ha affermato Oh.

Il fenomeno, d'altronde, ha contorni allarmanti. In poco più di vent’anni, le famiglie mononucleari nella capitale sono passate dal 16% al 40% del totale. Secondo un'indagine del Seoul Institute del 2022, il 62% di chi vive da solo si sente spesso solo. La città stima inoltre che circa 130.000 giovani vivano in uno stato di isolamento sociale, mentre nel 2023 si sono registrati oltre 3.600 casi di "morte solitaria": persone trovate senza vita solo dopo settimane o mesi.

Non è difficile intuire perché le "panacee" offerte da questi spazi — comode, ben curate, a volte persino costose — risultino così attrattive. Eppure, sotto la superficie levigata, resta il vuoto. I pediluvi, i noodles caldi, la compagnia silenziosa: tutto serve ad attenuare il dolore, ma nulla lo estirpa. Non c’è niente di male, certo, nel cercare un po’ di pace tra una parete insonorizzata e una poltrona ergonomica, ma il problema non è solo individuale. È una forma di disagio che nasce da un modello sociale fondato su prestazione, isolamento, produttività. «Le politiche sulla solitudine che avevamo precedentemente nel nostro Paese erano rivolte alle persone che vivevano in stati isolati e si trovavano in una fase di crisi», spiega Kim Se-heon, responsabile del nuovo dipartimento anti-solitudine del Comune. «Ma ci siamo resi conto che dovevamo affrontare la solitudine stessa, ovvero lo stato emotivo soggettivo che precede l'isolamento e il ritiro».


È una solitudine “normale”, quotidiana, che non urla né grida, ma logora. Per questo l’idea dei “minimarket per la mente” si appoggia a un riferimento familiare, quello dei Pyeonuijeom — i veri convenience store coreani, dove si può trovare uno snack alle 3 del mattino, magari dopo il lavoro. «È come un mix tra un bar e un minimarket», commenta Eom. Anche Lee Won-tae, 51 anni, frequenta regolarmente il centro di Dongdaemun. È nuovo in zona, ha problemi alle gambe, pochi amici. «Cammino molto, ma quando mi allontano troppo, diventa difficile. Vengo qui, mi prendo una pausa e poi continuo». Non cerca socialità attiva, solo un posto in cui sentirsi accolto, senza domande. «Poter semplicemente riposare in un posto come questo mi sembra più giusto».

Prima di accedere ai servizi, ogni visitatore deve compilare un breve questionario sulla solitudine. A seconda delle risposte, può accedere a una o due porzioni di ramen al giorno. La mensa della solitudine si adatta così alla misura del bisogno emotivo. Un’idea che fa riflettere, e non poco, su quanto la mancanza di contatto umano venga trattata sempre più come un parametro da regolare, una soglia da monitorare, un bisogno da contabilizzare. Parallelamente, la città ha lanciato una linea telefonica per chi si sente solo, attiva 24 ore su 24. Ad aprile, primo mese di attività, il numero aveva già ricevuto oltre 10.000 chiamate — un’enormità, se si considera che l’obiettivo per l'intero anno era di 3.000. Il 63% delle telefonate proveniva da persone di mezza età, il 31% da giovani adulti, solo il 5% da anziani.

Una fotografia generazionale di una solitudine diffusa, e non limitata alla vecchiaia. Yoo Dong-heon, assistente sociale e responsabile del centro di Dongdaemun, racconta al Guardian che la domanda ha superato ogni previsione. «La gente non proviene solo dagli altri quartieri di Seul, ma anche da città fuori dalla capitale, tra cui Gimpo, Uijeongbu e persino Ansan», dice, sottolineando che alcune storie lasciano il segno. «Stamattina è venuto un uomo che aveva tentato il suicidio più volte, con ferite ancora visibili sulle mani. Per persone come queste, le mettiamo subito in contatto con i servizi sociali».

C’è poi chi al centro ci lavora, come volontario. Lee In-sook è una “consulente per le attività di guarigione”, e offre qualcosa che spesso manca nei programmi pubblici: esperienza vissuta. Dopo un divorzio, dieci anni fa, si è ritrovata senza sostegno economico, con due figli da crescere. «Mi sentivo impotente e non volevo fare nulla. Ma avevo dei figli da crescere, quindi ho dovuto rimettermi in sesto», ricorda. Ora lavora una volta a settimana al centro, dove offre ascolto paziente a chi è appena arrivato. «Alcune persone vengono qui e all’inizio non parlano con gli sconosciuti. È normale. Ma gradualmente, man mano che prendono familiarità con lo spazio, iniziano a sentirsi a proprio agio nel condividere». «È qualcosa che i soldi non possono comprare», dice. Una frase semplice, quasi banale, ma che risuona forte in un contesto in cui tutto — anche la connessione umana — sembra essere progettato, organizzato, incasellato. E dove la solitudine pare essere diventata un nemico da battere con i gadget del benessere.

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