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My Beautiful Laundrette: quarant’anni fa, la commedia che scosse l’Inghilterra di Thatcher (e non solo)

Barbara Leone
 
My Beautiful Laundrette: quarant’anni fa, la commedia che scosse l’Inghilterra di Thatcher (e non solo)

Ci sono film che, a distanza di decenni, si guardano come reperti archeologici, ingialliti dal tempo, incapaci di parlare a chi non ha vissuto l’epoca che li ha generati. E poi ci sono opere che continuano a vibrare, a interpellarci con la stessa urgenza di allora, perché racchiudono contraddizioni, desideri e paure che non hanno mai smesso di essere nostri. My Beautiful Laundrette appartiene a questa seconda categoria. Scritto da Hanif Kureishi e diretto da Stephen Frears, uscito nel 1985, il film è tornato da poco nelle sale del Regno Unito per festeggiare i suoi quarant’anni in versione restaurata, con un’energia che non conosce patina.

My Beautiful Laundrette: quarant’anni fa, la commedia che scosse l’Inghilterra di Thatcher (e non solo)

Nel presentare questa riedizione, il Guardian parla di ''un’allegoria vivace, divertente e complessa'' costruita attorno a una lavanderia a gettoni nella Londra sud degli anni Ottanta. Una descrizione che coglie bene l’anima del film: un luogo marginale, sporco, apparentemente privo di futuro, trasformato in spazio di riscatto sociale e insieme di collisione culturale. Ma non basta: quella lavanderia, ribattezzata ironicamente Powders, diventa un teatro politico, un crocevia dove si intrecciano migrazione e identità, amore e denaro, omofobia e gentrificazione.

Per comprendere fino in fondo la forza dirompente del film bisogna però tornare a quell’Inghilterra: la Gran Bretagna della Iron Lady, devastata dalla disoccupazione, attraversata da scioperi e dal riemergere di movimenti razzisti di strada. L’Enterprise Allowance Scheme, citato nella recensione del Guardian, fu una delle trovate del governo conservatore per alleggerire le statistiche sulla disoccupazione incentivando piccole iniziative imprenditoriali. Una misura che, almeno sulla carta, avrebbe dovuto celebrare l’intraprendenza britannica, ma che di fatto trovò nei migranti asiatici i suoi protagonisti più attivi.

È su questo terreno che germoglia la vicenda di Omar (Gordon Warnecke), giovane pakistano di seconda generazione, incaricato dallo zio Hussein di rimettere in piedi una lavanderia decrepita. Con un misto di inventiva e cinismo, Omar trasforma quel relitto urbano in un business fiorente, reinvestendo persino i soldi provenienti dai traffici illeciti del cugino Salim. Un gesto che è insieme denuncia e parodia di quella nuova imprenditoria londinese, fondata su un’energia ibrida, sporca, capace di mescolare droga e detersivo, repressione e liberazione.

Ma ciò che rende il film qualcosa di più di una semplice commedia sociale, è il cuore segreto che pulsa nella sua trama: l’amore tra Omar e Johnny (Daniel Day-Lewis), ex teppista bianco un tempo vicino a gruppi neonazisti.

Una deflagrazione: perché in un’epoca di aperta omofobia, quando l’AIDS stava trasformando il desiderio gay in un tabù ancora più feroce, Kureishi ebbe il coraggio di mettere in scena una relazione omosessuale senza veli, tenera e carnale insieme. Una scelta non priva di conseguenze: il film fu accolto con scandalo e entusiasmo, con una polarizzazione che ne certificò subito la natura di oggetto politico.

Se il cinema mainstream britannico faticava ad affrontare la questione, Kureishi e Frears seppero portarla al centro, intrecciandola con i temi del razzismo, della marginalità e dell’aspirazione sociale. La cosa non sorprende: Kureishi arrivava dalla letteratura, e il suo sguardo era già quello di una nuova generazione di autori postcoloniali. Il film dialoga idealmente con i romanzi che in quegli stessi anni riscrivevano l’identità britannica: I figli della mezzanotte di Salman Rushdie, Sour Sweet di Timothy Mo.

Non a caso The Guardian ricorda come quella scrittura fosse parte di ''una nuova energia letteraria'' che proveniva dalle comunità migranti, portando nel cuore del Regno Unito l’ironia, il trauma e la ricchezza del confronto culturale. A delineare il tutto, la magistrale regia di Stephen Frears, allora ancora lontano dai trionfi hollywoodiani di Le relazioni pericolose e The Queen, che aderisce con intelligenza a questo materiale: asciutta, diretta, più interessata a catturare il realismo urbano e i gesti dei personaggi che a costruire una forma estetizzante.

Ma proprio in questa asciuttezza sta la sua forza: Frears filma Londra come un paesaggio in trasformazione, dove il degrado e la modernità si danno battaglia a colpi di neon e insegne fatiscenti. Sul piano interpretativo, il film fu un laboratorio sorprendente. Gordon Warnecke, con il suo Omar leggermente acerbo, diede al personaggio una presenza fragile, ma magnetica. Rita Wolf, nel ruolo di Tania - la cugina che avrebbe dovuto sposare Omar - incarnò con intensità il conflitto femminile di una generazione che non accettava più matrimoni combinati.

Ma fu Daniel Day-Lewis a trasformare la pellicola in un evento. All’epoca era poco più che un esordiente, e in quello stesso 1985 compariva anche in Camera con vista di James Ivory, in un ruolo completamente diverso. Qui invece indossa i panni ruvidi di Johnny, ex picchiatore dai legami con la destra estrema, pronto a reinventarsi.

The Guardian osserva che ''Day-Lewis non si era ancora evoluto nell’attore maturo che sarebbe diventato'', eppure già mostrava quella capacità di calarsi nei ruoli con una dedizione assoluta. Le sue scazzottate di strada forse non avevano ancora la perfezione fisica che raggiungerà in seguito, ma la loro convinzione scenica lasciava intravedere il futuro gigante della recitazione.

Come detto, alla sua uscita My Beautiful Laundrette fu accolto con un misto di sorpresa e controversia. Molti critici lo salutarono come una ventata di freschezza, capace di portare sullo schermo una Londra fin lì invisibile: non quella dei quartieri borghesi o dei drammi aristocratici, ma delle lavanderie, delle comunità pakistane, dei piccoli commerci alimentati tanto dal desiderio di integrazione quanto da quello di sopravvivenza.

Allo stesso tempo, la rappresentazione esplicita di un amore omosessuale interrazziale fu percepita da una parte del pubblico come una provocazione. Ma fu proprio questa reazione a certificare la potenza del film: l’avere rotto tabù consolidati, l’avere scosso la narrazione ufficiale della Gran Bretagna come “stupida isoletta” - per usare la battuta citata nel film - che continuava a definirsi per esclusione, dimenticando di essere già da tempo uno spazio ibrido e plurale.

Non va poi dimenticato che My Beautiful Laundrette nacque come progetto televisivo, commissionato da Channel 4, e solo successivamente approdò al cinema, diventando un successo internazionale. Un passaggio emblematico, perché segna il momento in cui la televisione britannica, più coraggiosa e meno vincolata al mercato, si fece veicolo di innovazioni culturali che il cinema mainstream non avrebbe osato.

Il film ottenne una nomination agli Oscar per la sceneggiatura originale di Kureishi e vinse premi in festival di tutto il mondo, diventando un punto di riferimento per la rappresentazione delle minoranze etniche e sessuali sul grande schermo. Per la comunità LGBTQ+ e per quella sud-asiatica fu un segnale di visibilità senza precedenti: finalmente un racconto in cui non si era ridotti a stereotipi, ma protagonisti di storie complesse, contraddittorie, autentiche.

Riguardato oggi, My Beautiful Laundrette è anche un viaggio in una Londra che non esiste più. I neon, i videoregistratori appena arrivati sul mercato, i negozi di periferia: dettagli che lo rendono una ''capsula del tempo'', come l’ha definito The Guardian. Eppure, nonostante questa veste vintage, il cuore del film rimane attualissimo. Il conflitto tra radici e appartenenza, la tensione tra gentrificazione e marginalità, l’ibridazione culturale e linguistica: questioni che attraversano ancora le grandi città di tutto il mondo, non solo Londra.

Mai come oggi, con le nuove derive razziste e selettive che avanzano, My Beautiful Laundrette torna a ricordarci che l’identità britannica, e per estensione quella europea, si è costruita e continua a costruirsi nella mescolanza, nella contaminazione, nel coraggio di raccontare storie non lineari. E però, guai a ridurre questo film a semplice esercizio di memoria.

Perché My Beautiful Laundrette continua a interrogarci con urgenza inalterata, facendoci risuonare dentro quella domanda provocatoria di uno dei parenti di Omar: ''Come si può chiamare casa questa stupida isoletta?''. E la risposta, ieri come oggi, non sta nella negazione delle differenze, ma nella capacità di trasformarle, pur tra conflitti e contraddizioni, in una casa comune.

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