Il Molise che non esiste - o che forse non resiste, declinazione assai più pregnante del verbo - riesce nell'arcana impresa di manifestarsi segnalandosi nel modo più desolante possibile. Stavolta il prodigio geografico-ontologico si compie a Campobasso, innanzi al Municipio, luogo deputato per antonomasia alla rappresentanza civica, dove una pista di pattinaggio natalizia decide di scivolare - letteralmente, con perfetto sincronismo metaforico - sulle note di Faccetta nera: l'inno più immediatamente riconoscibile dell'intera fonoteca del Ventennio, quella nenia propagandistica che accompagnava un regime edificato su manganellate notturne, ordinamenti libertici e migliaia di morti ammazzati con metodica brutalità.
Il Molise che non (r)esiste
Il gestore dell'impianto evoca una playlist di YouTube "non controllata", come se l'algoritmo fosse entità metafisica dotata di volontà politica propria, un demiurgo digitale che elegge autonomamente le musiche dell'infanzia. La sindaca Maria Luisa Forte definisce l'accaduto "inaccettabile" e rivendica l'innocenza adamitica dell'amministrazione, "totalmente ignara e incolpevole". Un funzionario interviene con solerzia, sopraggiungono le scuse dovute, cala il sipario della rimozione istituzionale.
Fine della vicenda? Nemmeno lontanamente. Il vero spettacolo, come sempre accade nell'epoca della dissoluzione cognitiva, ha inizio dopo. Nei commenti. In quell'immenso condominio digitale dove tutti abitano il medesimo pianerottolo dell'ignoranza e bussano alla medesima porta con un'unica, inamovibile domanda: "E allora Bella ciao?".
Iterata, ossessiva, trionfante come fosse un sillogismo aristotelico e non il più logoro riflesso condizionato del revisionismo da tastiera, degno erede di quel venerabile "E allora i Marò?" che ha infestato i dibattiti pubblici per un lustro abbondante. Il paragone, sennonché, non sta né in cielo né in terra. Faccetta nera non è canzonetta "d'epoca", non è folklore innocuo, non è nostalgia inoffensiva da jukebox: è propaganda fascista cristallizzata in note, legata a un regime che ha prodotto decine di migliaia di morti italiani, persecuzioni sistematiche, confino, leggi razziali, aggressioni squadristiche perpetrate nelle abitazioni private dei dissidenti, ruberie istituzionalizzate, privazioni metodiche di ogni libertà civile.
Un sistema che ha fatto della violenza una grammatica quotidiana e della sopraffazione una politica di Stato. Bella ciao è l'esatto contrario. Canto popolare di liberazione, nato dalla Resistenza, simbolo di una lotta che non appartiene a una fazione ma a un intero Paese che scelse di non morire genuflesso. Una lotta che vide combattere fianco a fianco comunisti e cattolici, liberali e monarchici, militari sbandati e sì, moltissimi uomini di destra che ebbero la dignità di schierarsi dalla parte giusta della storia. Senza quella Resistenza, senza quei partigiani, oggi non esisterebbe nemmeno lo spazio - fisico e digitale - in cui certi commentatori possono permettersi di digitare le proprie castronerie con tanta baldanzosa sicumera. Eppure il refrain torna, instancabile come un giostra difettosa: "E allora Bella ciao?".
Non per comprendere, ma per confondere. Non per discutere, ma per appiattire tutto in un indistinto grigiore morale dove fascismo e antifascismo divengono equivalenti, intercambiabili, annacquati fino a perdere ogni significato. È il revisionismo quotidiano, quello che non necessita di libri né di convegni accademici: basta un commento, una risata grassa, un'alzata di spalle. L'ignoranza non è più difetto: è programma politico, manifesto culturale, orgoglio identitario. La storia si riscrive a colpi di emoticon, il passato si pialla come mobile Ikea dalle superfici troppo irregolari. Carnefici e vittime nello stesso calderone, resistenti e repubblichini nella medesima brodaglia della smemoratezza collettiva. La pista di pattinaggio è stata sistemata con celerità. La canzone è scomparsa dalle casse. I bambini hanno continuato a volteggiare in tondo, ignari come conviene. Ma il problema non era il ghiaccio né la playlist. Era, ed è (e, ahinoi, sarà sempre di più) quel sottofondo culturale che considera tutto uguale, tutto opinabile, tutto riscrivibile. Storia compresa.