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"Grasse", "Mucche" e fitness forzato: la moda che umilia le operaie

Barbara Bizzarri
 
'Grasse', 'Mucche' e fitness forzato: la moda che umilia le operaie

Che la body positivity fosse tutta una gran frescaccia per fatturare anche sulle più in carne è ormai noto a tutti, e ricordatevi sempre di Miranda Priestley, miei cari: oltretutto, sta tornando al cinema. È lei (o Anna) a dettare legge. Quindi, appurato che la 42 (intesa come taglia) è la nuova 56, non stupisce quanto denunciato dalle dipendenti del colosso del Made in Italy Max Mara, che hanno deciso di scioperare per protesta contro condizioni di lavoro definite insostenibili e «inaccettabili».

"Grasse", "Mucche" e fitness forzato: la moda che umilia le operaie

La Filctem Cgil di Reggio Emilia, si fa megafono delle esigenze delle poverine, e in una nota scrive: «Rigidità organizzativa, usura fisica, pressioni individuali, mancato riconoscimento economico e dei passaggi di livello, nessuna disponibilità al confronto con le rappresentanze sindacali: è questo il vissuto quotidiano dei 220 lavoratrici e lavoratori che operano con professionalità in questa realtà del gruppo Max Mara». Mentre le lavoratrici raccontano al Fatto Quotidiano: «Ci hanno chiamate mucche da mungere» (consolatevi, ragazze! Conosco uno stilista quotatissimo che dava delle grassone alle modelle durante i casting, e si parla di ragazze alte un metro e ottanta per cinquanta chili, mentre lui straborda. Che anche la moda sia patriarcato?).

Intanto, le dipendenti continuano a inanellare la dura realtà del lavoro di oggi, perché nel terzo millennio si è tornati, non si sa come, anzi sì ma è troppo lungo da spiegare in cotanta sede, a Charles Dickens: «Ci hanno detto che siamo grasse, obese, e ci hanno consigliato gli esercizi da fare a casa per dimagrire. Ci pagano praticamente a cottimo e controllano anche quante volte andiamo in bagno, ma siamo tutte donne, abbiamo il ciclo: è disumano. Ora basta».

E non sono le uniche, purtroppo: i Carabinieri del nucleo ispettorato del lavoro hanno condotto accertamenti e scoperto subappalti in laboratorio-dormitorio presenti nelle province di Bergamo e Milano in cui venivano realizzati prodotti per il brand. All'interno lavoratori e lavoratrici cinesi, sfruttati e pagati poco (anche due euro all'ora) e in nero: in compenso, una borsa venduta ai clienti tra i 1800 e i 3000 euro era prodotta con un costo che oscillava tra i 40 e i 90. Ora, la domanda sorge spontanea: ma se con questi soldi si facesse qualche bel viaggio, o comunque esperienze per diventare persone migliori, o si versassero a qualche canile/gattile, non sarebbe meglio piuttosto che foraggiare un sistema evidentemente malato che toglie dignità agli individui per quelli che, alla fine, sono soltanto quattro stracci? Meditate, gente, al prossimo giro di shopping.

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