Vi sono due cose durevoli che possiamo sperare di lasciare in eredità ai nostri figli: le radici e le ali.
In questo antico proverbio cinese si cela tutto il senso del cammino di chi cerca la propria origine, il senso di appartenenza, il diritto a un'identità riscoperta. Ed è proprio in questa ricerca che si inserisce la storia di João Diamante, uno chef brasiliano che, attraversando l’oceano, ha compiuto un viaggio non solo geografico, ma spirituale, tornando alle radici della propria esistenza.
Alla ricerca di sé: il viaggio di João Diamante tra radici e futuro
Quando Diamante è sceso dall’aereo a Cotonou, in Benin, ha sentito un’emozione che lo ha avvolto come un abbraccio antico e familiare. Non era mai stato prima in Africa, eppure ogni cosa intorno a lui parlava la lingua del sangue, del passato inciso nel suo DNA.
"La prima cosa che ho sentito è stata che ero a casa", ha raccontato al The Guardian. La musica, gli odori, il battito vitale della città: tutto gli apparteneva, come un ricordo impresso nell’anima, un richiamo a un passato mai vissuto ma impresso nel profondo del suo essere.
La storia di João è quella di milioni di afrodiscendenti in Brasile, un Paese che ha accolto il 40% degli schiavi africani deportati nelle Americhe tra il XVI e il XIX secolo. Salvador, la città che gli ha dato i natali, è un crogiolo di culture, una fusione di ritmi, sapori e tradizioni che raccontano la storia di chi fu strappato alla propria terra per essere costretto a una vita di schiavitù.
In ogni angolo, nei suoni del samba, nei profumi del cibo, nei colori accesi delle strade, si percepisce l'eco di un'eredità africana mai perduta, ma solo trasformata. Ed è proprio a questa storia che si ricollega l'iniziativa del Benin, Paese dell'Africa occidentale di lingua francese, che ha deciso di offrire la cittadinanza agli afrodiscendenti di tutto il mondo, sanando, almeno in parte, le ferite di un passato di dolore e separazione.
Questo gesto, che va oltre la burocrazia e il semplice riconoscimento giuridico, rappresenta un ponte tra passato e futuro, un'opportunità di riconciliazione con le proprie radici. Per Diamante, la possibilità di ottenere un passaporto beninese non è solo una questione amministrativa, ma una dichiarazione d’identità: "Molte persone sognano di avere un passaporto statunitense o europeo. Io sogno di avere un passaporto beninese, perché l’Africa è il posto da cui provengo", dice. Un desiderio che non è solo personale ma collettivo: il Benin non si aspetta che milioni di brasiliani richiedano la cittadinanza, ma vuole diventare un punto di riferimento per la diaspora, un luogo dove il ritorno è possibile e dove le radici possono tornare a intrecciarsi con la terra da cui furono strappate.
Il programma di cittadinanza del Benin , proposto dal presidente Patrice Talon e approvato dal parlamento in ottobre, ha suscitato particolare interesse in Brasile.
Del resto, la connessione tra i due Paesi è antica e profonda: intere generazioni di beninesi furono portate con la forza in Sud America, lasciando dietro di sé storie spezzate e un patrimonio culturale disperso.
Oggi, con l'iniziativa del presidente Patrice Talon, il Benin apre le porte a chi desidera riconciliarsi con il proprio passato, richiedendo una documentazione che attesti la discendenza sub-sahariana, anche attraverso test del DNA. Una metodologia che alcuni studiosi mettono in dubbio, sostenendo che i test genetici non possano fornire un quadro preciso della discendenza.
Ma, al di là della scienza, il richiamo dell'Africa è più forte di qualsiasi dato biologico: è un legame ancestrale, un’appartenenza che trascende il tempo e la geografia, un filo invisibile che continua a tessere la storia di un popolo sparso nel mondo. Il viaggio di João Diamante lo ha portato fino alla Porta del Non Ritorno a Ouidah, un arco commemorativo sulla spiaggia, simbolo del dolore di milioni di uomini e donne deportati verso le Americhe.
Di fronte a quel monumento, lo chef ha sentito il peso di una storia di soprusi e brutalità. "È stato devastante... Siamo stati saccheggiati senza vergogna... è stata una delle cose più crudeli che l'umanità potesse fare", ha detto con commozione.
L'eco delle voci spezzate si mescolava al rumore delle onde, come se la storia non fosse mai stata realmente sepolta, ma solo sospesa nel vento. Eppure, proprio in quel dolore si è accesa la sua determinazione: onorare la memoria di chi non è mai tornato, celebrando la cultura afro-brasiliana attraverso il cibo, il sapore, la condivisione. E così, nel cuore pulsante di Rio, vicino alle rovine del molo Valongo che è il più grande punto di sbarco di schiavi delle Americhe, Diamante ha aperto un ristorante che racconta la sua storia, quella del Brasile e dell’Africa.
Le sue mani danno vita a piatti che uniscono ingredienti, spezie, tradizioni, creando un ponte gustativo tra le due sponde dell'oceano, come se attraverso il cibo si potesse riannodare quel legame spezzato dalla Storia.
E già immagina un futuro in Benin, con un locale che possa unire le due culture attraverso i sapori e le tradizioni condivise, trasformando ogni pasto in un atto di memoria e resistenza.
Un viaggio, quello di Diamante, che è non solo un forte simbolo di riscoperta. Ma anche, e forse soprattutto visti i tempi, un ponte tra il passato e il futuro. Perché le radici non servono solo a tenere saldo un albero, ma a permettergli di crescere forte e libero. Un passaporto che equivale al diritto di ricordare, e di appartenere. Un ritorno che non è solo fisico, ma spirituale, un modo per guarire le ferite del passato e dare nuove ali alle generazioni future.