Campobasso è un paradiso urbano, e non lo diciamo noi, gli orgogliosi campobassani.
Lo dicono i numeri, lo certifica la scienza. Anzi, lo garantisce una delle riviste mediche più autorevoli al mondo: The Lancet Planetary Health. Siamo il top. Anzi, i migliori tra i piccoli centri d’Europa. Per vivibilità ambientale, accessibilità ai servizi, qualità urbana. Abbiamo superato città blasonate del vecchio continente con la grazia di un capolavoro architettonico.
Campobasso caput mundi dei paradisi urbani? Non scherziamo, please
Eppure, c’è un dettaglio che mi sfugge. Forse, più che sfuggirmi, mi prende a schiaffi. Perché io a Campobasso ci sono nata. E sono pure scappata a gambe levate. Per me, leggere che la mia città sarebbe ''un esempio europeo di benessere urbano'' è un po’ come ritrovare su un libro di storia che l’Unione Sovietica era un faro di libertà individuale. È una falsità garbata, detta in punta di penna, ma comunque una falsità.
Chi ha stilato questa classifica, mi domando, ha mai tentato l’impresa epica di cercare un negozio che non sia l’ennesimo "compro oro" dal sorriso finto o una sala slot che pare l’anticamera del purgatorio, con luci al neon che non riescono a mascherare la malinconia? Ha mai contato, una ad una, le vetrine vuote come orbite senza sguardo, con quei cartelli "affittasi" scoloriti dal tempo e dalla rassegnazione, ferite urbane che nessuno si cura più nemmeno di leccarsi? E, soprattutto, ci è mai stato veramente a Campobasso, ci ha mai vissuto?
No, ovvio. Perché per raggiungerla serve una devozione da pellegrinaggio mariano: prima il rosario, poi due o tre cambi di treno su linee che nemmeno ai tempi della mia bisnonna, e infine la "mitica" statale del deserto, dove se ti capita davanti un trattore, non arrivi più, manco col favore dei santi. Altro che vivibilità, parola meravigliosa. Ma che film hanno visto? Dev’essere uno scherzo, se manco un diretto per Roma (300 chilometri scarsi) esiste più. Leggo, con un misto di ironia e malinconia, i commenti social.
Alcuni hanno il tono rassegnato del sarcasmo molisano, quello che si tramanda di generazione in generazione come le conserve di pomodoro, come ormai le fanno solo gli emigrati all'estero, che ancora tengono alle tradizioni familiari. Altri sono grida strazianti, accorate, che implorano un briciolo di onestà nel narrare la realtà. "Ma è una presa per i fondelli?", quello più frequente. Insieme a "È troppo facile parlare di vivibilità in una città dove non c'è più nessuno". Ecco, appunto. Non c’è più nessuno. E non per caso.
Perché, chi se ne va, non lo fa per noia o per capriccio. Se ne va per fame di possibilità, per desiderio di dignità. Se ne va perché, in Molise, l’aria sarà anche salubre – e lo è, eccome –, ma l’atmosfera è marcia da tempo. Perché una regione, per vivere, non ha bisogno solo di alberi e colline: ha bisogno di visione, di servizi essenziali, di cura, di risposte. E invece, noi, siamo terra di silenzi e di deleghe.
Da decenni, si mangia sul cadavere di un territorio che, paradossalmente, non è mai morto del tutto. Siamo rimasti sospesi in una perenne agonia dolce, come quei pazienti che nessuno stacca mai dal respiratore, per interesse o per codardia. E nel frattempo, continuiamo a ricevere premi. Campobasso è sana? Certo. Perché è vuota. Perché non ha industria, né traffico. Perché il tempo qui, anzi per mia fortuna lì, si è fermato. E dove il tempo si ferma, certo che si conserva l’aria buona.
È la benedizione della marginalità. Ma il problema è che a forza di essere sani per assenza di stimoli, siamo (sono) diventati morti per mancanza di vita. E allora sì, ci saranno anche più piante che palazzi. Ma non basta qualche aiuola, né una mappa a colori di uno studio catalano a colmare il vuoto umano, culturale, civile che ha avvolto questa città, e la regione intera, come una nebbia senza stagione. Non è un caso che il Comune abbia celebrato il risultato con un’iniziativa sulla salute pubblica in piazza Municipio. Screening gratuiti e gazebo col sorriso. Che meraviglia.
Intanto, però, le attività commerciali muoiono. I giovani se ne vanno. I collegamenti restano fantasmatici. La politica si finge stupita, mentre si aggira tra le macerie che essa stessa ha prodotto. Ma ci dicono che va tutto bene, che siamo un modello. Che possiamo insegnare qualcosa all’Europa. Ma siete seri? Perché la verità è che dovremmo, dovreste, solo imparare a guardarci/guadarvi allo specchio. La verità è che il Molise – e Campobasso ne è il cuore simbolico – è la rappresentazione più feroce dell’Italia che poteva essere e non è mai stata. Un luogo bellissimo, oltraggiato dall’indifferenza. Un teatro naturale svuotato di attori, dove ogni tanto si celebra una farsa statistica e si applaude a comando.
Poi si chiude il sipario. E si torna al nulla. E io, che ho amato e amo questa terra con la rabbia che si ha solo per ciò che si conosce a fondo, capisco ogni giorno di più perché, anni fa, ho fatto le valigie senza voltarmi. Eppure, questa terra potrebbe davvero essere un’isola felice. Se solo la sua gente – non tutta, ma troppa – non si fosse rassegnata all’immobilismo come a un destino ineluttabile. Se non ci avessero insegnato che lamentarsi è inutile, che ribellarsi è maleducato, che chi ha fame di cambiamento è un ingrato. Se non ci fossimo fatti andare bene tutto. Ma si sa, chi nasce in Molise è ''moli-sano''. Ma, come con ironia amara ha scritto qualcuno sui social, da moli-sano a molis-ano, è un attimo. Fate un po’ voi…