Negli ultimi decenni, gli alimenti ultraprocessati - i cosiddetti UPF - sono passati da eccezione a presenza costante nelle dispense di milioni di famiglie, fino a diventare un pilastro, spesso ingombrante, delle abitudini alimentari moderne. Bevande zuccherate, snack confezionati, carni lavorate, cereali raffinati, dolciumi e prodotti da forno industriali sono oggi così diffusi che, secondo le ultime stime, il 70% degli alimenti venduti negli Stati Uniti contiene almeno un ingrediente ultraprocessato.
Alimenti ultraprocessati: il rischio per cuore, diabete e obesità
Il problema, sottolinea l’American Heart Association (AHA) nel nuovo avviso scientifico pubblicato sulla rivista Circulation, è che gran parte di questi prodotti è ricca di grassi saturi, zuccheri aggiunti e sodio, un trio ad alto impatto calorico e basso valore nutrizionale. “Sappiamo che mangiare cibi con troppi grassi saturi, zuccheri aggiunti e sale non è salutare”, ha dichiarato Maya K. Vadiveloo, Ph.D., RD, FAHA, presidente volontaria del gruppo di redazione del rapporto. “Quello che non sappiamo è se determinati ingredienti o tecniche di lavorazione rendano un alimento malsano al di là della sua scarsa composizione nutrizionale, o se additivi e fasi di lavorazione impiegati per prodotti più sani, come il pane integrale commerciale, abbiano un impatto sulla salute”.
Il consumo di UPF è cresciuto in maniera vertiginosa dagli anni ’90, alterando profondamente i modelli alimentari tradizionali. I dati dei Centers for Disease Control and Prevention (CDC) diffusi il 7 agosto mostrano che oltre la metà delle calorie consumate negli Stati Uniti proviene da alimenti ultraprocessati: il 55% nella popolazione complessiva, che sale al 62% tra bambini e adolescenti. La quota è più alta tra le famiglie a reddito medio-basso, dove costi contenuti, lunga conservabilità e un marketing aggressivo rendono questi prodotti la scelta più immediata, a scapito di alternative fresche e nutrienti. Non tutti gli UPF, precisa l’AHA, sono però da condannare in blocco: alcuni cereali integrali confezionati, latticini a ridotto contenuto di grassi e zuccheri e prodotti vegetali lavorati possono inserirsi in un’alimentazione equilibrata. È proprio questa zona grigia a creare confusione tra i consumatori e persino tra gli operatori sanitari.
Il documento dell’American Heart Association si appoggia al sistema di classificazione Nova, il più usato a livello internazionale, che distingue gli alimenti in base al grado e allo scopo della lavorazione industriale. Questo approccio, tuttavia, non tiene conto della qualità nutrizionale: alcune tecniche industriali possono essere utili, ad esempio per prolungare la conservazione, migliorare la sicurezza microbiologica o ridurre gli sprechi. La difficoltà sta anche nella mancanza di informazioni complete. Negli Stati Uniti, i produttori non sono obbligati a indicare sulle etichette le tecniche di lavorazione o la quantità di additivi cosmetici utilizzati, un vuoto normativo che alimenta l’incertezza su rischi e benefici.
Le evidenze raccolte dalla AHA sono tutt’altro che rassicuranti. Una meta-analisi di studi prospettici ha evidenziato un legame diretto tra consumo di UPF e aumento del rischio di eventi cardiovascolari - come infarto e ictus -, diabete di tipo 2, obesità e mortalità per tutte le cause. Chi consuma più alimenti ultraprocessati rispetto a chi ne consuma meno presenta un rischio maggiore che varia dal 25% al 58% per le patologie cardiometaboliche, e dal 21% al 66% per la mortalità complessiva.
Oltre alla composizione nutrizionale, c’è un aspetto meno evidente ma potenzialmente cruciale: la capacità degli UPF di alterare i meccanismi cerebrali legati alla ricompensa. Ingredienti come aromi artificiali o dolcificanti possono ingannare il cervello, simulando la dolcezza senza zucchero e rompendo il legame naturale tra gusto e nutrienti. Questo, secondo i ricercatori, favorisce abitudini alimentari irregolari e aumento di peso. Il messaggio dell’AHA è chiaro: ridurre il consumo degli alimenti ultraprocessati più dannosi e privilegiare una dieta ricca di frutta, verdura, legumi, cereali integrali, frutta secca, semi, latticini a basso contenuto di grassi e proteine magre come pesce, pollame o frutti di mare.
“Sono necessarie ulteriori ricerche per comprendere meglio i meccanismi con cui gli UPF influiscono sulla salute”, ha ribadito Vadiveloo. “Nel frattempo, continuiamo a raccomandare di limitarne il consumo e di adottare scelte più nutrienti per il benessere a breve e lungo termine”. Il rapporto non si limita a fotografare la situazione, ma propone anche piste concrete per il futuro: dall’introduzione di politiche più incisive, come etichette chiare sul fronte delle confezioni, all’aumento dei finanziamenti per studi che chiariscano se sia l’ultraprocessazione in sé a danneggiare la salute o se il problema risieda soprattutto negli ingredienti usati. Un obiettivo che, secondo l’AHA, richiede una strategia multilivello, capace di coinvolgere singoli cittadini, industria alimentare e decisori politici.