Ultime notizie
Ofi Invest AM: I dazi non salveranno gli Stati Uniti dal debito pubblico
di Ombretta Signori, Head of Macroeconomic Research and Strategy di Ofi Invest AM

Nonostante i recenti progressi fatti con la Cina, la politica commerciale degli Stati Uniti continua a essere fonte di incertezza, soprattutto in relazione alla minaccia di imporre dazi al 50% sull’Eurozona, per cui anche i tribunali americani sono entrati in gioco. Infatti, sebbene i negoziati siano ancora in corso, la US Court of International Trade ha inizialmente sospeso le tariffe in essere (tranne quelle su acciaio, alluminio e auto), poiché non ha riconosciuto la legalità dello stato di emergenza dichiarato dalla Casa Bianca. Successivamente, questa decisione è stata sospesa da una corte d’appello, con i dazi che sono stati ripristinati, in attesa di una sentenza definitiva da parte della Corte Suprema. In ogni caso, qualunque sia il risultato finale, tutto ciò va ad aggravare ulteriormente quell’incertezza che, nei prossimi mesi, spingerà le imprese a posticipare le loro decisioni in materia di investimenti futuri.
Tuttavia, se si esamina la situazione dal punto di vista di Washington, è facile capire come i dazi siano uno strumento chiave per il presidente Donald Trump, sia per quanto riguarda i negoziati, sia per ridurre il deficit commerciale e quindi sostenere la sua politica di taglio delle tasse. Su questo ultimo punto, è importante notare che la “reconciliation proposal” è stata approvata dalla Camera dei Rappresentanti e ora è in attesa di essere discussa al Senato. La sua approvazione, prevista per questa estate, dovrebbe estendere e ampliare i tagli emanati nel 2017, sotto la prima amministrazione Trump, aumentando il limite dell’indebitamento massimo prima della data di scadenza.
Alla luce di ciò, e del fatto che tra Stati Uniti e Cina non è stato ancora firmato un accordo definitivo, noi di Ofi Invest AM prevediamo che le tariffe nei prossimi 10 anni potrebbero generare ricavi compresi tra i 2.000 e i 2.500 miliardi di dollari, non abbastanza da scongiurare un aumento del rapporto debito/Pil, che nei prossimi anni dovrebbe arrivare ad attestarsi tra il 6% e il 6,5%.
Infine, l’inflazione di aprile al 2,3% (2,8% nel caso della componente core) mostra come gli States fossero sulla buona strada per raggiungere l’obiettivo prefissato se non fosse stato per la nuova politica protezionistica, i cui effetti sui prezzi si fanno già vedere. A maggio, l’inflazione è tornata a crescere dopo quattro mesi. Tuttavia, dato che negli scorsi mesi le imprese hanno effettuato imponenti operazioni di accumulo di scorte nei loro magazzini, l’impatto dei dazi non si è ancora mostrato a livello aggregato, ma potrebbe farlo nell’arco di tre mesi. Questo, unito alla resilienza che l’economia nazionale ha mostrato finora, mettono la Fed nella posizione di poter aspettare, prima di procedere a un eventuale taglio dei tassi d’interesse.
Su questo scenario avranno poi un ruolo primario le negoziazioni, non solo per gli Usa, ma anche per la stessa Area Euro. Il fatto che queste si stiano protraendo a lungo zavorra la crescita e l’indice PMI del Vecchio Continente è tornato a scendere sotto la soglia dei 50 punti per la prima volta da inizio anno, segnalando un andamento poco brillante della domanda interna. Un risvolto positivo potrebbe arrivare dalla Germania, ma solo se questa implementerà in fretta il suo piano di investimento. Tuttavia, lo scenario attuale ci dice che una stagnazione prolungata potrebbe anche generare una contrazione della crescita economica, in particolare per quei paesi maggiormente esposti all’export negli Stati Uniti, come l’Italia e la stessa Germania.