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Le possibili conseguenze del conflitto tra Israele e Iran

di François Rimeu, Senior Strategist di Crédit Mutuel Asset Management
 
Le possibili conseguenze del conflitto tra Israele e Iran
L’attacco di Israele all’Iran, iniziato il 12 giugno, ha avuto finora un impatto limitato sui mercati. Cosa sta prezzando il mercato? Concordiamo con le valutazioni? Quali sono gli esiti possibili?

Fino a ieri, lunedì 16 giugno, i mercati azionari sono tornati ai livelli precedenti all’attacco, le valute sono rimaste relativamente stabili, i prezzi del petrolio sono in rialzo del 7-8% mentre i tassi d’interesse sono cresciuti di 5-10 punti base a seconda della regione e della duration. Questa reazione piuttosto limitata del mercato sembra fondata sul presupposto che questo conflitto rimarrà localizzato e non causerà uno shock duraturo alla produzione di petrolio. Tendiamo a concordare con questa ipotesi per diversi motivi.

Innanzitutto, la produzione petrolifera iraniana è di 3,3 milioni di barili al giorno (Mb/d) e, se consideriamo il minimo di produzione del 2021, era scesa a 1,7 Mb/d. Il possibile calo di produzione in questo scenario sarebbe quindi compreso tra 1,5 e 2 Mb/d (circa l’1,5% della produzione globale), una percentuale che non sarebbe sufficiente a destabilizzare l’equilibrio tra domanda e offerta. L’OPEC+ avrebbe infatti la capacità di aumentare la produzione se necessario, dal momento che la sola Arabia Saudita ha poco meno di 2 milioni di barili al giorno di capacità inutilizzata.

In secondo luogo, finora Israele non ha preso di mira gli impianti di produzione petrolifera ma ha limitato i suoi attacchi alle installazioni militari o nucleari.

In ultima istanza, oggi il rischio principale è rappresentato dalla chiusura dello Stretto di Hormuz, che però non sembra probabile. Un blocco dello stretto ridurrebbe il commercio di petrolio di circa il 15% e potrebbe far salire il prezzo del barile oltre i 100 dollari, effetti che sarebbero davvero destabilizzanti. Tuttavia, questa è un’opzione pericolosa per l’Iran. Da un lato, perché impedirebbe all’Iran di esportare petrolio al suo principale partner, la Cina, e non sembra il momento giusto per entrare in conflitto con il Paese del dragone. Dall’altro, perché la chiusura dello stretto scatenerebbe una reazione immediata da parte degli Stati Uniti, un rischio che oggi l’Iran non può permettersi di correre.

Le opzioni per l’Iran nel breve termine sembrano quindi limitate, visto che non gode del sostegno dei suoi alleati storici (Hezbollah, Russia, Siria), e l’unica alternativa in grado di destabilizzare i suoi avversari, la chiusura dello stretto di Hormuz, sembra oggi improbabile. Nel caso in cui il conflitto non si inasprisca, il prezzo del barile di petrolio tornerebbe gradualmente nella fascia dei 55-70 dollari e non avrebbe quindi un impatto duraturo sull’inflazione. Di conseguenza, teniamo ferme le nostre allocazioni, che restano ampiamente neutrali sul fronte azionario e positive verso l’obbligazionario dell’Eurozona. Adegueremo le nostre posizioni in base all’evoluzione della situazione.
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