Cinema & Co.

Diane Keaton e l'arte della vulnerabilità

di Barbara Leone
 
Diane Keaton e l'arte della vulnerabilità

La notizia arriva con la discrezione che lei stessa avrebbe preteso: Diane Keaton si è spenta a settantanove anni, lasciando dietro di sé non soltanto una filmografia che ha ridefinito i confini della recitazione femminile, ma un'eredità più sottile, quella di chi ha saputo trasformare le proprie fragilità in linguaggio universale. Non guardava mai i film in cui recitava. Lo confessò anni fa, quasi di sfuggita, come si ammette un vizio innocente. L'insicurezza, diceva. Ma forse era altro: la consapevolezza lucida che ogni interpretazione fosse un pezzo di sé offerto allo sguardo altrui, troppo intimo per essere rivissuto sullo schermo. Eppure proprio quella vulnerabilità dichiarata, mai mascherata, divenne il suo marchio distintivo, il centro gravitazionale attorno cui ruotò un'intera epoca del cinema americano. Regista, fotografa, scrittrice. E collezionista. Collezionista quasi ossessiva: di case californiane, di cappelli, di fotografie di sconosciuti comprate ai mercatini e salvate dall'oblio per pura affezione estetica. La sua casa di Los Angeles era un museo privato delle sue ossessioni, un autoritratto tridimensionale fatto di oggetti invece che di parole.

Era nata Diane Hall, il 5 gennaio 1946 a Los Angeles, primogenita di quattro figli. Padre ingegnere civile, madre casalinga. Una famiglia normale in una città che di normale aveva ben poco. Quando arrivò a New York nei tardi anni Sessanta per buttarsi nel teatro, scoprì che al sindacato attori c'era già una Diane Hall registrata. Prese il cognome della madre, Keaton, e con quel nome attraversò mezzo secolo di cinema americano cambiandone per sempre i confini. Debuttò a Broadway nel 1968 in Hair, nell'epoca dei capelli lunghi e delle utopie collettive, poi nel 1969 finì in Provaci ancora, Sam di un certo Woody Allen che si innamorò subito di quella ragazza impacciata che sembrava sempre sul punto di scusarsi per il solo fatto di esistere. "Stare con te è come camminare sulle uova", le disse Allen. Diane lo raccontò decenni dopo aggiungendo: "Credo si riferisse al mio essere troppo sensibile. Mi feriva qualunque cosa". Ma da quella ipersensibilità, da quella fragilità estrema che in chiunque altro sarebbe stata un limite, nacque invece una collaborazione artistica che ridefinì il cinema americano.

Lavorarono insieme in otto film attraverso vent'anni, da Provaci ancora Sam al Dormiglione, da Manhattan fino a Misterioso omicidio a Manhattan nel 1993, quando ormai erano passati decenni dalla fine della loro storia d'amore ma il legame professionale resisteva incrollabile, più forte di qualunque matrimonio. Ma fu Io e Annie il vero capolavoro di quel sodalizio, che infatti le valse l’Oscar nel 1977. E però ridurre quella performance a un premio è come descrivere l'oceano dicendo che è bagnato. Perché Annie Hall era Diane, e Diane era Annie in un cortocircuito totale tra finzione e realtà. Allen costruì quel personaggio intorno a lei, intorno alla loro relazione che già si sgretolava, intorno a quel modo unico che aveva Diane di esistere nel mondo: quel "la-di-da" cantilenato, quella capacità di essere goffa e luminosa insieme, quelle cravatte rubate dall'armadio degli uomini perché i vestiti da donna le stavano stretti addosso, troppo convenzionali per contenere la sua inquietudine.

C'è una scena dove Annie e Alvy Singer passeggiano a New York e lei indossa un completo maschile con gilet e cravatta storta. Quella scena non fu una scelta del costumista, fu Diane che portò sul set i propri vestiti, quelli che indossava davvero nella vita, e il cinema americano non aveva mai visto nulla del genere: una donna che rifiutava la seduzione tradizionale per offrire qualcosa di più pericoloso, la propria autenticità nuda. Quel look androgino rivoluzionò l'idea stessa di eleganza femminile e ancora oggi quando vedi una donna in giacca e cravatta c'è un po' di Annie Hall, c'è un po' di Diane che continua a esistere. The New Yorker la definì "una delle attrici più comiche e brillanti del nostro tempo". Vinse l'Oscar, il Golden Globe, il BAFTA e improvvisamente le donne al cinema capirono che si poteva essere protagoniste senza conformarsi, che la nevrosi poteva diventare forza, che l'imperfezione era una forma di perfezione più alta. La sua lealtà verso Allen non vacillò nemmeno quando sarebbe stato conveniente prendere le distanze. Nel 2014, quando Dylan Farrow lo accusò di abusi, Diane scelse di difenderlo pubblicamente. Gliene dissero di tutti i colori, la lapidarono sui social, la chiamarono complice. Lei non arretrò di un millimetro perché aveva la sua verità e quella verità non la tradì, costi quel che costi. Era fatta così: leale fino all'osso, incapace di giocare secondo le convenienze del momento, incapace di tradire quello che sapeva essere vero anche quando il mondo intero le urlava contro.

Ma se Allen fu l'amore intellettuale, quello che le diede forma artistica, Al Pacino fu la passione pura che brucia e consuma. Si erano incrociati sul set del Padrino nel 1972 dove lei interpretava Kay Adams, l'unica presenza femminile in quell’universo saturo di testosterone e violenza. La scintilla scattò subito, ma dovettero aspettare quindici anni prima di darle fuoco, come se entrambi sapessero che una volta accesa quella fiamma non ci sarebbe stato modo di controllarla. Nel 1987, durante le riprese del Padrino Parte III, finalmente si lasciarono andare e fu una relazione torrida, intermittente, impossibile. Due anime troppo intense per convivere senza bruciarsi. "Ero pronta finalmente per il matrimonio, lui no", confessò Diane nel 2011 con quella onestà che non le lasciava scampo. "E non credo che un matrimonio felice a lungo termine sarebbe stato facile per lui". Si lasciarono nel 1990. Lei aveva quarantaquattro anni, e capì che quella era stata l'ultima occasione. Non ci furono altri uomini dopo Pacino. Nel 2017 dichiarò a People di essere single da più di trent'anni. Trent'anni. Non si sposò mai, cosa che negli anni Settanta suonava come manifesto politico e negli anni Duemila come eccentricità da diva. Ma per Diane era semplicemente la sua natura, il suo modo di stare al mondo senza dover rendere conto a nessuno. A cinquant'anni passati adottò Dexter, poi Duke.

Maternità solitaria costruita al di fuori di ogni convenzione, senza partner, senza bisogno di giustificarsi con nessuno. Li protesse dall'esposizione mediatica con ferocia silenziosa, ne parlò pochissimo, giusto quel tanto per ricordare al mondo che erano la sua famiglia vera, quella scelta e costruita giorno per giorno lontano dai riflettori, più reale di qualunque storia d'amore avesse vissuto. Una famiglia che per Diane includeva anche gli animali. Come  Emma, la Golden Retriever che postava spesso su Instagram, e prima di lei Josie, che Al Pacino le aveva regalato sul set del Padrino Parte III. Un impegno, quello della Keaton per gli animali, che andava ben oltre le mura domestiche: sosteneva il Big Cat Public Safety Act per combattere il commercio di animali esotici, collaborava con l'Helen Woodward Animal Center, faceva parte del consiglio di Social Compassion in Legislation. Non un attivismo di maniera, ma una battaglia coerente con la sua visione del mondo: quella di una donna che vedeva negli animali una forma di amore leale e silenzioso, di cui non smetteva mai di farsi portavoce.

Perché alla fine Diane ha costruito la sua vita con un unico faro: la coerenza. Senza compromessi, senza piegarsi alle aspettative altrui. Anche nelle fragilità. Come  la bulimia, che la tormentò per anni, e che raccontò senza pudori falsi, in quel suo modo di attraversare il dolore senza estetizzarlo ma senza nemmeno nasconderlo, perché faceva parte di lei tanto quanto i suoi successi. E coerentemente se n’è andata in punta di piedi: senza clamore, com'era giusto che fosse per una donna che aveva sempre rifiutato la retorica, sempre schivato i riflettori quando poteva. Resta il cinema, restano quei personaggi che hanno insegnato a esistere diversamente. Resta quel "la-di-da" pronunciato con perfetta leggerezza, resta Annie Hall con le sue cravatte e il suo cuore in disordine, resta Kay Adams con quello sguardo che giudica senza condannare. Restano settantanove anni di una vita mai recitata, sempre vissuta fino in fondo, con tutti i suoi errori magnifici e le sue scelte coraggiose che non chiese mai a nessuno di approvare. Resta l'insegnamento più grande: che la vulnerabilità non è debolezza ma la forma più alta di coraggio. Che mostrarsi fragili richiede una forza che non tutti possiedono. Che si può attraversare il mondo senza armature e sopravvivere, anzi brillare proprio per questo. 

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