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Columbia Threadneedle Inv. - Quanto può cambiare in una settimana
di Anthony Willis, Investment Manager di Columbia Threadneedle Investments

La scorsa settimana è stata caratterizzata da importanti sviluppi geopolitici, che hanno contribuito a delineare uno scenario sensibilmente più favorevole rispetto a sette giorni fa. Il cessate il fuoco provvisorio tra Israele e Iran ha infatti offerto una tregua alle tensioni in Medio Oriente, sostenendo il sentiment degli investitori. Ne è derivato un generale rialzo dei mercati finanziari, testimoniato dal calo significativo del prezzo del petrolio e dal raggiungimento di nuovi massimi storici da parte dell’azionario statunitense.
La settimana passata si era infatti aperta con il timore di un possibile coinvolgimento diretto degli Stati Uniti in un conflitto su larga scala, a seguito dell’attacco alle infrastrutture nucleari iraniane. Tuttavia, la risposta dell’Iran si è rivelata prevalentemente simbolica e rivolta al proprio pubblico interno, piuttosto che configurarsi come un’escalation nei confronti degli Stati Uniti. In seguito alla risposta contenuta da parte dell’Iran, Stati Uniti, Israele e Iran hanno optato per una de-escalation, scegliendo la strada del cessate il fuoco anziché proseguire il confronto armato. Il presidente Trump ha annunciato la conclusione della “guerra dei 12 giorni”, dopo che Israele e Iran hanno accettato un accordo di tregua mediato dagli Stati Uniti, segnando così la possibile fine di quasi due settimane di ostilità tra i due principali rivali della regione. Tuttavia, è importante notare che esiste una differenza significativa tra un cessate il fuoco, un accordo di pace e una sconfitta militare e che, dal punto di vista geopolitico, il Medio Oriente rimane una regione altamente instabile. Israele e Iran sono nemici giurati e Israele continuerà a impegnarsi per impedire all'Iran di costruire armi nucleari; il che significa che qualsiasi segno di progresso da parte dell'Iran in tale direzione potrebbe portare alla ripresa delle ostilità.
Per i mercati finanziari, è ora possibile accantonare i timori legati a un’impennata dei prezzi del petrolio dovuta a un’eventuale chiusura dello Stretto di Hormuz o ad attacchi diretti contro gli Stati Uniti. Questo contesto ha favorito il netto ribasso delle quotazioni del greggio negli ultimi giorni, riportandole su livelli che non si registravano dai primi di giugno, in seguito all’attacco israeliano contro l’Iran. Prima della recente escalation, le previsioni indicavano un prezzo del petrolio intorno ai 60 dollari al barile entro fine anno, sostenuto da un’elevata offerta e da una domanda contenuta. Questa mattina il Brent Crude viene scambiato a 67 dollari al barile, riflettendo ancora un certo premio di rischio dovuto alla situazione geopolitica, ma ben lontano dagli 81 dollari al barile raggiunti lunedì scorso e molto lontano dai livelli superiori ai 100 dollari al barile che avrebbero un impatto significativo sulla propensione al rischio.
Con le tensioni in Medio Oriente che potrebbero passare quindi in secondo piano, l'attenzione può nuovamente tornare a focalizzarsi sui due temi che hanno dominato i mercati finanziari da inizio anno: la guerra commerciale e il bilancio degli Stati Uniti. Il presidente Trump continua a esercitare pressioni sul Congresso affinché approvi il "Big Beautiful Bill" entro il 4 luglio; le prossime 48 ore saranno quindi fondamentali per rispettare questa scadenza e consentire ai mercati di assimilare il contenuto della versione definitiva e l'entità dell'aumento del deficit statunitense nel prossimo decennio. Nel frattempo, si avvicina la scadenza del 9 luglio per gli "accordi" commerciali che dovrebbero evitare l'applicazione di dazi reciproci. Siamo ancora lontani dai 90 accordi in 90 giorni promessi dal presidente Trump, ma l'opinione comune sembra essere che gli Stati Uniti non andranno molto oltre il dazio di base del 10%, anche se questo potrebbe non essere vero per tutti i partner commerciali del Paese. Appare inoltre plausibile che possa essere concessa una proroga oltre la scadenza del 9 luglio, a quei Paesi che stanno registrando progressi nei negoziati sulle tariffe, mentre per gli altri un’estensione potrebbe non essere garantita.
C'è chi ritiene che le tariffe non avranno un impatto significativo sull'inflazione, ma è probabilmente troppo presto per poterne avere la certezza, dato che i dazi sono in vigore solo da pochi mesi e a livelli variabili. La storia dimostra che di solito c'è un ritardo di almeno tre mesi prima che gli aumenti dei dazi si riflettano sui prezzi; pertanto, è troppo prematuro trarre conclusioni. Ad esempio, il dazio del 20% sulle lavatrici nel 2018 ha avuto un impatto sui prezzi solo dopo circa tre-quattro mesi. Nei dati sull'inflazione di maggio si sono registrati segnali di inflazione in alcuni settori, come quello dei ricambi per automobili; tuttavia, dato il picco delle scorte prima dell'introduzione dei dazi, molti dei beni in vendita nel mese di maggio, quando l'IPC era "debole", sarebbero stati importati prima dell'entrata in vigore dei dazi. Inoltre, sembra che alcune aziende siano riluttanti a trasferire gli aumenti di prezzo fino a quando non avranno una maggiore visibilità su dove si stabilizzeranno le tariffe nel lungo termine.
I mercati finanziari continuano a prezzare due interventi di riduzione dei tassi d’interesse da parte della Federal Reserve entro la fine dell’anno, con tagli da 25 punti base attesi nelle riunioni di settembre e dicembre. Al momento, non vi è alcuna ragione per cui la Federal Reserve (Fed) debba modificare la propria politica monetaria: né l'inflazione né la disoccupazione indicano la necessità di un intervento immediato e, vista la grande incertezza che caratterizza il prossimo futuro, è logico che la Fed adotti un atteggiamento attendista durante l'estate, nella speranza che a settembre la situazione sia un po' più chiara. Tuttavia, l'eventuale pubblicazione di dati CPI "più deboli" negli Stati Uniti potrebbe far aumentare notevolmente le richieste di tagli dei tassi, non da ultimo da parte della Casa Bianca.