Ambiente & Sostenibilità

Caccia ai capibara, scontro aperto tra biologi e attivisti in Colombia

di Redazione
 
Caccia ai capibara, scontro aperto tra biologi e attivisti in Colombia
A forza di voler controllare, cacciare e sterminare ogni forma di vita che respira, l’essere umano finirà per dare la caccia persino alla propria ombra. La storia dei capibara in Colombia sembra scritta su questo paradosso: l’animale che per milioni di anni ha abitato in pace le savane allagate dell’Orinoquía, oggi rischia di diventare l’ennesimo bersaglio della voracità umana, stretto tra i fucili della caccia commerciale e le ruspe dell’agroindustria. Un tempo modesti protagonisti del paesaggio colombiano-venezuelano, i capibara – o chigüiros, come vengono chiamati in loco – sono diventati negli ultimi anni star internazionali: personaggi Disney, mascotte del marketing, fino a essere incoronati come “gli animali più amichevoli del pianeta”. Ma dietro l’immagine simpatica, racconta El País, si nasconde un dibattito acceso che mette in rotta di collisione biologi, ambientalisti, politici e coltivatori di riso. “Sono divini”, riconosce il biologo Hugo López Arévalo, professore alla Universidad Nacional, che ha dedicato anni allo studio dei capibara. Eppure, paradossalmente, López è tra coloro che sostengono la caccia regolamentata di questi roditori giganti. Il ragionamento degli scienziati è pragmatico: i capibara si riproducono a ritmi così elevati da essere considerati “parassiti” in Argentina e Brasile. Vent’anni di ricerche, spiegano, mostrerebbero che consentire la caccia di una quota compresa tra il 5 e il 10% della popolazione non avrebbe effetti devastanti. Anzi, secondo López, permetterebbe di trasformare un’attività illegale in un settore economico sostenibile, valorizzando carne, ossa e pelle, in linea con la Convenzione sulla biodiversità firmata dalla Colombia nel 1992.

Gli attivisti per i diritti degli animali, invece, parlano di crudeltà e di una falsa soluzione. “Come possiamo fidarci dei controlli di un ente che non è stato in grado di combattere i crimini ambientali?”, domanda la senatrice verde Andrea Padilla, intervistata da El País. Per lei, il vero tema non è la caccia, visto che la carne di capibara è già legalmente consumata attraverso l’allevamento, ma la difesa del loro habitat naturale: “Sarebbe auspicabile recuperare e proteggere le savane allagate in cui vivono, monitorare le popolazioni selvatiche e proteggere la salute degli individui”. Dietro questa disputa si apre però uno scenario molto più ampio: quello della trasformazione radicale delle pianure orientali della Colombia. A partire dagli anni ’80, le risaie hanno iniziato a colonizzare un territorio tradizionalmente dedicato al bestiame, favorito da autostrade e incentivi. Oggi, secondo la Federazione nazionale dei risicoltori (Fedearroz), l’Orinoquía produce oltre la metà del riso consumato nel Paese. Un trionfo economico, ma a quale prezzo? Rodrigo Botero, direttore della Fondazione per la Conservazione e lo Sviluppo Sostenibile, denuncia a El País “l’enorme impatto ambientale” del modello agricolo: deviazioni di fiumi, uso intensivo di pesticidi e fertilizzanti, disboscamenti ai margini dell’Amazzonia. “Quante migliaia di litri finiscono nelle acque?”, si chiede Botero, sottolineando che i risicoltori godono persino di permessi di captazione idrica più ampi di quelli concessi all’industria degli idrocarburi. Dal canto loro, i tecnici di Fedearroz difendono la categoria: Jorge Ardila, agronomo del centro di ricerca di Yopal, sottolinea i progressi compiuti. “Abbiamo ridotto del 55% l’impronta idrica e l’uso di prodotti chimici”, afferma, ricordando che gran parte delle coltivazioni è a pioggia e non a irrigazione artificiale. Ma ammette anche che non tutti i coltivatori seguono pratiche sostenibili e che senza una pianificazione territoriale aggiornata “si naviga al buio”.

Intanto i capibara continuano a percorrere le risaie, lasciando impronte e nutrendosi talvolta dei germogli di riso. Secondo Fedearroz, gli agricoltori non denunciano veri e propri danni, limitandosi a scoraggiarli con recinzioni elettrificate. Ma López ricorda che in alcuni casi i proprietari terrieri hanno ordinato di ucciderli, considerandoli una minaccia per i raccolti. Ed è qui che il biologo insiste sulla sua tesi: “Non possiamo pensare che tutto ciò che è verde sia bioeconomia, né che tutto ciò che non è carne sia buono”. A suo giudizio, l’introduzione di un mercato regolamentato per la carne di capibara, persino in chiave turistica, potrebbe sostenere le comunità locali e contrastare la pressione della grande agroindustria. La posta in gioco è alta. Nel 2030, con l’entrata in vigore dell’accordo di libero scambio, il riso statunitense arriverà in Colombia senza dazi, mettendo in ginocchio i produttori locali. La caccia al capibara, sostengono alcuni, potrebbe essere un’ancora economica in un settore fragile. Per altri, invece, significherebbe tradire un patrimonio naturale e culturale millenario.
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