Se tre indizi fanno una prova, il fatto che, per il terzo anno di fila, Sergio Mattarella non abbia presenziato alla prima della Scala qualche retropensiero potrebbe anche farlo venire. Ma non è così perché il nostro presidente della Repubblica non fa mancare mai la sua prestigiosa presenza nelle occasioni che contano, ma anche in quelle che non sono realmente importanti.
Scala: il governo che (quasi) diserta la prima non è un bel segnale
Quindi, se anche quest'anno non lo ha fatto, avrà i suoi buoni motivi. Che non sono stati resi noti, ma che ci saranno e anche importanti. E quindi, tanto per restare in ambito milanese, ''tiremm innanz'', come avrebbe detto Amatore Sciesa.
Però qualcosa, su quel palco presidenziale ''orbo'' bisogna pure dirla, perché, pur col massimo rispetto per il ministro della Cultura, Alessandro Giuli, il governo era pressoché assente.
Si dirà che c'era la senatrice Liliana Segre, ma lei, sempre presente, non è il governo e quindi qualche domanda bisognerà pure farsela.
Perché se c'era in blocco tutta la nomenklatura meneghina (da quella politica a quella economico-finanziaria, a quella artistica) a mancare era il governo, certo preso da altre mille incombenze, ma anche i presidenti dei due rami del Parlamento.
Ma la prima alla Scala, nel tradizionale appuntamento del 7 dicembre, non è - col massimo rispetto - come una sagra del tartufo nelle Langhe o del porcino negli appennini laziali o, anche, non è nemmeno qualche appuntamento politico al quale non si può mancare, quando invece si potrebbe.
La prima alla Scala è qualcosa che mischia la tradizione e la storia di una città, la cultura, il glamour, il senso di milanesità tanto vantato.
Non è una semplice rappresentazione, seppure affidata al meglio del canto e della direzione: è un momento in cui la comunità nazionale (quella che viene celebrata celebrata ad ogni occasione, talvolta a sproposito) si ritrova unita dall'orgoglio di una vetrina che non ha eguali al mondo, frutto di mesi di progettazioni, di prove, di giornate spese per approntare la migliore perché più credibile scenografia.
Quindi presenziarvi dovrebbe essere, per un componente del governo che non sia quello alla Cultura (che risponde ad un obbligo della carica) un momento di partecipazione ad un evento che va al di là dei confini geografici di una città e di una regione, ma anche di un Paese, ma molto oltre la singola serata, il sentire voci meravigliose spandersi nell'aria, sotto una direzione illuminata come quella di Riccardo Chailly, tacendo dei magnifici professori dell'orchestra.
Essere presente è il riconoscimento di un lavoro impegnativo e il cui risultato - quello de ''Lady Macbeth del distretto di Mcensk'' - è stato, a detta degli esperti, eccellente.
Ma se essere presenti ha un senso, scegliere di non esserci, per strano che possa apparire, è, per chi fa politica, una scelta, le cui motivazioni saranno pure importanti, ma non tali da non farci chiedere come sia stato possibile che, davanti ad uno sforzo titanico, come quello di mettere in scena la potente opera di Dmitrij Šostakovič, si sia deciso di fare rappresentare il governo del Paese dal solo Giulio e dal sottosegretario Mazzi.
Davanti alla sparuta rappresentanza del Governo, il presidente della Giunta regionale della Lombardia, Attilio Fontana, ha chiosato ''ce ne faremo una ragione'', mentre nel foyer sfilavano in molti, tra chi non poteva mancare e chi, invece, ha voluto esserci, solo per sfoggiare un capo firmato o nella speranza d'essere intervistato.