Il Made in Italy continua a sedurre i capitali esteri. Nel solo 2024 il mercato italiano delle fusioni e acquisizioni ha toccato quota 73 miliardi di euro, segnando un incremento del +13% rispetto all’anno precedente. Un trend che, però, preoccupa non poco Unimpresa: circa 24 miliardi di queste operazioni hanno riguardato brand italiani passati in mani straniere, con la conseguente emorragia di know how, competenze e identità produttiva.
Unimpresa lancia l’allarme sul Made in Italy: "Serve una legge per il rimpatrio dei marchi storici"
È per questo che l’associazione lancia una proposta concreta al governo: una legge per incentivare il ritorno e il rimpatrio dei marchi storici italiani venduti all’estero. «Il concetto di Made in Italy – spiega il consigliere nazionale Marco Salustri (in foto) – affonda le sue radici nella tradizione artigianale e industriale del Paese. Tuttavia, da anni assistiamo a una graduale perdita di controllo su questo patrimonio, senza che siano state varate misure strutturali per contrastare il fenomeno».
Secondo i dati elaborati dal Centro Studi di Unimpresa, più di due terzi delle operazioni di M&A restano in ambito nazionale, ma è la quota estera ad aumentare costantemente, trainata dai grandi fondi internazionali di private equity. A farne le spese sono spesso marchi storici come Bialetti, oggi nelle mani di una holding lussemburghese legata a capitali cinesi, o La Perla, acquisita da un ex dirigente di Expedia.
Il comparto moda e lusso è tra i più esposti: con un valore stimato in 21,6 miliardi di dollari per il 2025, rappresenta un asset strategico ma vulnerabile. Non a caso, è proprio da questo settore che arriva un segnale in controtendenza: l’acquisizione di Versace da parte di Prada, annunciata nell’aprile 2025, con un investimento di 1,4 miliardi di dollari, dimostra che il ritorno in mani italiane è possibile, ma serve una cornice normativa adeguata.
Per invertire la rotta, Unimpresa propone una legge articolata su tre direttrici principali:
- Accesso agevolato al credito bancario, con garanzia dello Stato, per finanziare il riacquisto dei marchi;
- Incentivi fiscali per l’assunzione, per almeno cinque anni, di personale impiegato nella produzione legata al brand;
- Riduzione della pressione fiscale in misura proporzionale alla quota societaria riacquisita da parte di soggetti italiani.
«Una norma di questo tipo – sottolinea Salustri – non solo riporterebbe nel Paese pezzi fondamentali del nostro tessuto industriale, ma genererebbe nuove entrate fiscali, amplierebbe la base imponibile e darebbe impulso a occupazione e filiere locali».
La tutela dei marchi non è solo un tema simbolico: la moda, il design, l’agroalimentare e la manifattura di alta gamma pesano complessivamente per circa il 5% del PIL italiano. La perdita di controllo su questi settori chiave rischia di compromettere non solo la competitività industriale, ma anche la narrazione identitaria del Paese nel mondo.
«L’internazionalizzazione dei capitali è fisiologica, ma senza politiche di riequilibrio – conclude Salustri – il rischio è di restare un grande showroom globale di eccellenze progettate altrove. È il momento di restituire al Made in Italy la dignità e la centralità che merita nel nostro sviluppo economico».