Nel cuore ordinato e pettinato della Danimarca, dove l’eco-sostenibilità è una religione laica e la civiltà si misura anche in litri di raccolta differenziata, c’è uno zoo — quello di Aalborg — che ha pensato bene di lanciare un appello che odora di aberrazione etica mascherata da coscienza ambientale.
Donazioni di animali domestici per sfamare le tigri: lo zoo danese e il volto educato della crudeltà
Il messaggio è chiaro, persino elegante nella forma: ''Avete animali domestici di cui non sapete più cosa fare? Portateli a noi. Li daremo in pasto ai predatori''. Fine dell’imbarazzo. E fine dell’animale.
Non si parla di surrogati in peluche o resti da macello.
No, l’invito è rivolto a chi ha un coniglio, un porcellino d’India, magari un cavallo che ormai è diventato solo un costo. Purché l’animale sia sano perché, carini che sono, ci tengono alla qualità del pasto dei loro ospiti.
Del resto, nella loro testa, lo scopo è nobile. Anzi no, proprio darwiniano: offrire a tigri, linci e leoni un'alimentazione ''il più naturale possibile''.
Tradotto: se in natura i felini mangiano animali vivi o appena uccisi, anche in cattività meritano lo stesso menu. Si chiama “responsabilità alimentare”, ci informano, con il tono morale di chi non sta chiedendo di sopprimere un cucciolo di casa, ma sta facendo un favore all’ecosistema.
Dietro il linguaggio educato e la patina "scientifica" dell'iniziativa, si cela però qualcosa di agghiacciante. Perché qui non si tratta semplicemente di riutilizzare carcasse o di seguire protocolli veterinari per il benessere animale. No, qui si chiede di portare volontariamente esseri viventi cresciuti in un contesto domestico per destinarli a una morte ''professionale'' nelle cucine dello zoo. Il tutto nel nome di una natura che, peraltro, questi animali non vedranno mai.
A rincarare la dose, arriva la precisazione che anche i cavalli possono entrare nel menù, a patto che siano forniti di passaporto equino e che non abbiano ricevuto farmaci negli ultimi 30 giorni. Una burocrazia della macellazione, infiocchettata da una possibile detrazione fiscale per i generosi donatori. La morte come occasione per scaricare qualche spesa e accumulare qualche punto nel bilancio familiare. La vicedirettrice dello zoo, Pia Nielsen, ha spiegato che si tratta di una prassi diffusa, un modo “etico” per impiegare animali destinati comunque alla soppressione.
Già: etico. Una parola che oggi si usa con una leggerezza sconcertante. Si fa un baffo alle emozioni, alla memoria affettiva, alla dignità degli animali. Etico per chi? verrebbe da chiedersi. Forse per chi considera la vita animale un elemento gestibile in base all’efficienza, un tassello da spostare su una scacchiera gestita da biologi, addestratori e ragionieri della biodiversità. Perché qui il problema non è solo l’idea aberrante di gettare animali domestici nel tritacarne della catena alimentare dello zoo.
Il problema è lo sguardo. Quel modo di osservare la natura e gli animali non come esseri senzienti, ma come pezzi di un puzzle da tenere insieme con parole giuste, regolamenti e slogan. Si sfama la tigre per imitarne la vita selvatica, dimenticando che quella vera non è mai stata rinchiusa in un recinto artificiale a 10 gradi sotto zero, con bambini che sbattono i pugni sul vetro del suo terrario. Il dibattito si è infiammato soprattutto intorno alla possibilità di donare cavalli.
In effetti, è facile immaginare il dolore che può colpire un’anima vagamente sensibile al pensiero di un animale tanto nobile ridotto a razione per grandi felini. Ma la questione non è (solo) il cavallo. È il principio che va smontato. Quello che rende accettabile trasformare l’indifferenza e la dismissione in un gesto civile. Come se disfarsi di un essere vivente fosse un atto di responsabilità ambientale. Come se fosse più dignitoso mandarlo a morire nello stomaco di una tigre depressa in gabbia, piuttosto che riconoscerne il diritto a una morte rispettosa. E nel frattempo, lo zoo si racconta come un custode del ciclo naturale della vita. Ma di naturale, in tutto questo, non c’è nulla.
Men che meno di educativo. Perché gli zoo sono luoghi anacronistici e diseducativi per definizione, sopravvissuti per inerzia culturale come lo sono i circhi con gli animali: monumenti alla nostra incapacità di immaginare un'infanzia che non contempli gabbie come strumenti pedagogici. E continuare a giustificarli in nome del divertimento dei bambini, o peggio ancora della loro "educazione al rispetto per la natura", è una scusa logora e offensiva per chi ha davvero a cuore il significato di quella parola: natura.
Certo, non c'è più il trauma del sequestro dalla savana, d'accordo: ma c’è la riproduzione coatta, sistematica, che alimenta un ciclo produttivo degno di una catena industriale. Non è conservazione, non è salvataggio. È intrattenimento travestito da scienza, con la sofferenza ben incorniciata da pannelli informativi. Educativo, questo? Solo se si considera la desensibilizzazione un valore didattico. Solo se si crede che la sofferenza debba essere esposta, come una mostra permanente, per ottenere la nostra attenzione. Ma per chi riconosce negli animali esseri senzienti e non materiali didattici, non c’è nulla da imparare nell’osservare una tigre che gira in tondo, né nel guardare un elefante che dondola su se stesso come un automa triste.
E non c’è nulla di etico nell’annullare il legame millenario tra uomo e animale sotto l’alibi pseudo-naturalistico della "dieta dei predatori". È un atto di sopraffazione travestito da coerenza biologica. E a chi difende gli zoo come roccaforti della conservazione, varrebbe la pena chiedere: non sarebbe più giusto spegnere il motore della riproduzione in cattività? Intanto, c’è almeno una buona ragione per non varcare più i cancelli di questi giardini della contraddizione c’è. Ed è il silenzio impaurito di un coniglio, lasciato davanti a un recinto, nell’attesa che qualcuno, con tanto di diploma, gli spieghi che oggi non è più desiderato. Ma sarà, almeno, "utile".