FOTO: Fernando Frazão/Agência Brasil - CC BY 3.0 BR
Con la morte, a Parigi, all’età di 81 anni, di Sebastião Ribeiro Salgado, maestro indiscusso della fotografia documentaria, il mondo ha perso l'artista che, con il suo sguardo in bianco e nero, ha raccontato l’umanità nella sua nudità più cruda e sublime.
Addio a Sebastião Salgado, il fotografo dei diseredati e della natura violata
Con la sua macchina fotografica non ha semplicemente immortalato uomini e paesaggi: li ha resi eterni, depositando in ogni scatto una coscienza etica e una visione estetica al contempo rigorosa e partecipe. Non era solo un fotografo, Salgado. Era un testimone del mondo. Un pellegrino del dolore e della bellezza. Un umanista armato di obiettivo, convinto che l’arte potesse, e dovesse, servire a denunciare, a risvegliare, a dare voce a chi voce non ha.
Classe 1944, nato nella regione brasiliana di Minas Gerais, Salgado fu inizialmente attratto dal mondo dell’economia. Lavorò per l'Organizzazione Internazionale del Caffè, viaggiando tra continenti e statistiche.
Ma fu grazie a una Leica 35mm, prestatagli dalla moglie e compagna di vita Lélia Wanick, che comprese la vera natura della sua vocazione.
Fu a Parigi, città d’esilio sotto la dittatura militare brasiliana, che cominciò il suo apprendistato visivo. Quel giovane economista con la macchina fotografica in mano divenne presto uno dei più intensi e rigorosi interpreti del nostro tempo. La sua opera si è sviluppata come un lungo poema visivo in bianco e nero, in cui l’assenza del colore non era rinuncia ma scelta ideologica e stilistica. Le sue immagini - rigorose, drammatiche, teatrali nella composizione ma profondamente sobrie nell’intento - hanno sempre cercato la verità, non lo spettacolo.
Dalla desertificazione del Sahel agli operai del Sud del mondo, dai migranti ai profughi, dalle favelas alle piantagioni devastate dall’avidità dell’uomo: ogni serie fotografica di Salgado è una meditazione sul destino umano, un capitolo di una grande epopea della fragilità.
Accostato spesso ai giganti della fotografia del Novecento come Robert Capa, Henri Cartier-Bresson o Robert Frank, Salgado si è però distinto per una cifra unica: quella tensione morale che permeava ogni sua immagine. "La fotografia è profondamente soggettiva", amava ripetere. "È il mio modo di vedere: le mie immagini nascono dalle mie idee politiche e ispirazioni ideologiche".
La sua visione non era neutra, e non voleva esserlo. Era parte di un mondo che voleva trasformare. Nel corso della sua lunga carriera, ha lavorato per le più prestigiose agenzie, da Gamma a Magnum Photos, dove divenne uno dei punti di riferimento, prima di fondare nel 1994 la propria agenzia, Amazonas Images, insieme a Lélia.
Una scelta di indipendenza che, però, gli costò anche critiche feroci: fu accusato, da alcune voci, di essere un "esteta della miseria". Accusa che lui respinse con fermezza e amarezza.
"Non ho mai fotografato la povertà — spiegava —, ma le persone. Gente che ha perso tutto e cerca una nuova terra. Io non mostro i miserabili, ma la dignità nella resistenza".
Uno dei suoi contributi più significativi è stato l’impegno per la causa ambientale.
Sul finire degli anni Novanta, profondamente segnato dalla devastazione causata dall’industrializzazione selvaggia, Salgado intraprese, con la moglie, un’opera straordinaria di riforestazione nella sua terra natale.
Così nacque l’Instituto Terra, un progetto pionieristico che ha permesso di rigenerare un intero ecosistema, piantando milioni di alberi e richiamando esperti da tutto il mondo.
Un atto d’amore che univa fotografia, scienza e impegno civile. Proprio da quell’esperienza nacquero due tra le sue opere più monumentali: Genesis (2013), un viaggio quasi biblico attraverso i luoghi più incontaminati del pianeta, e Amazonia (2021), omaggio visivo alle popolazioni indigene e alla foresta minacciata. In entrambi i progetti, Salgado tornava a quel binomio inscindibile tra uomo e natura che ha costituito il filo rosso della sua intera produzione.
Il fotografo brasiliano si era ammalato nel 2010, mentre lavorava in Indonesia: una forma aggressiva di malaria contratta durante il progetto Genesis si è evoluta, quindici anni dopo, in una leucemia che lo ha infine sopraffatto.
Una battaglia lunga e silenziosa, affrontata con la stessa discrezione con cui ha sempre vissuto, lasciando parlare le immagini più che le parole. La sua ultima apparizione pubblica era attesa a Reims, per l’inaugurazione delle vetrate disegnate dal figlio Rodrigo in una chiesa: un evento al quale non ha potuto partecipare, già provato dalla malattia. Eppure, è quasi poetico che la sua ultima traccia pubblica sia un’opera di luce, quella stessa luce che aveva imparato a dosare e a scolpire nel buio delle sue fotografie.
Il presidente brasiliano Lula da Silva, nel commemorarlo, ha detto: "Salgado non usava solo gli occhi e la macchina fotografica per ritrarre le persone, ma la pienezza del suo cuore". Un minuto di silenzio è stato osservato in sua memoria, ma il silenzio più eloquente resta quello che abita i suoi scatti. Figure immobili, disperazioni trattenute, dignità scolpite nella pellicola. Tra i suoi reportage più celebri ricordiamo Sahel: l’homme en détresse (1986), toccante testimonianza della carestia africana, Other Americas e An Uncertain Grace, meditazioni sul Sud del mondo, fino a Workers (1993), straordinaria archeologia del lavoro manuale in via d’estinzione.
Un’opera, quest’ultima, che oggi, in un’epoca dominata dall’intelligenza artificiale, appare più attuale che mai. Fino a settembre 2025, il Mart di Rovereto ospita la mostra Ghiacciai, dedicata proprio al suo sguardo sull’ambiente. Un’occasione rara per entrare in dialogo con un pensiero fotografico che ha sempre cercato di rivelare, non di raccontare; di far vedere l’essere umano, mai di mostrarlo. "Sono pessimista sull’umanità", confessava negli ultimi anni.
"Ma ottimista sul pianeta. Il pianeta si riprenderà. Sta diventando sempre più facile per il pianeta eliminarci". Parole che suonano oggi come un monito, ma anche come l’epitaffio di chi ha saputo guardare il mondo dritto negli occhi. E non ha mai distolto lo sguardo.