La pizza, a Napoli, non è un piatto. È un atto d’amore collettivo. È la domenica delle famiglie, la notte degli studenti squattrinati, la cena dei romantici, il pranzo degli operai. E guai a chiamarla “solo pizza”. Perché dietro quel cornicione gonfio come una nuvola benedetta dal Vesuvio, si nasconde un’intera filosofia di vita. È solo un disco di pasta lievitata, sì — acqua, farina, sale e lievito — , ma anche una geografia dell’anima, una cartolina commestibile della città. E nelle mani giuste – infarinate, sapienti, scaramantiche – quella pasta si fa miracolo: diventa un inno alla città, un’esplosione d’identità, una carezza bollente che racconta secoli di storia e fame, di povertà e genio.
Gli 007 del cornicione: in missione segreta per salvare la vera pizza napoletana
E guai a prenderla alla leggera: perché per un napoletano la pizza è affare serio. Serissimo.
Talmente serio che, per proteggerne la purezza e smascherare chi ne profana l’essenza, esistono veri e propri agenti segreti. Fondata nel 1984 per promuovere e tutelare la vera pizza napoletana, l’Associazione Verace Pizza Napoletana (AVPN) ha messo in piedi una rete di ispettori anonimi che viaggiano per il mondo come infiltrati del cornicione con un solo compito: controllare che le pizzerie certificate rispettino ogni dettaglio della tradizione, dalla temperatura del forno al modo in cui si impugna la pala.
Uno di questi 007 gastronomici, intervistato dalla BBC, ha raccontato senza troppi giri di parole il crimine più grave trovato nel corso delle sue ispezioni: ''Una pizza croccante, con un impasto decisamente non approvato''.
Inevitabile, a quel punto, la cancellazione della pizzeria colpevole. E quando le infrazioni diventano spudorate, l’AVPN agisce con determinazione. In Giappone, una pizzeria aveva continuato a esibire il certificato di autenticità anche dopo la revoca. Così, racconta con un sorriso il vicepresidente dell’associazione, Massimo Di Porzio, «"siamo andati a Osaka e l’abbiamo rimosso", accompagnati da un avvocato e da una sana dose di risolutezza partenopea.
Ma l’AVPN non è solo polizia del gusto: è anche università del cornicione.
A due passi dalle catacombe di San Gennaro, nel cuore di Napoli, decine di allievi provenienti da ogni parte del mondo si cimentano ogni mese con impasti e forni, alla ricerca della perfezione. E così in un’estate torrida e luminosa come solo quella napoletana sa essere, studenti dal Belgio, Brasile, Canada, Corea del Sud, Francia e Giappone si sono radunati per affrontare la prova suprema.
Hanno studiato il comportamento del lievito, il giusto equilibrio tra idratazione e sale, la freschezza dei condimenti e persino la filosofia della cottura. Gemma Eldridge, una giovane pizzaiola canadese, confida alla BBC: ''Ero piuttosto nervosa, soprattutto quando le persone hanno iniziato a tornare dagli esami. Ma in realtà si sta lì solo per tre minuti. Non c’è tempo per essere nervosi''.
Tre minuti – quelli necessari a cuocere una vera Margherita – che valgono una carriera. E se sbagli anche solo una virgola del disciplinare, sei fuori. Perché il documento sacro dell’AVPN non lascia spazio all’interpretazione: niente matterello, niente teglie, cornicione alto ma non oltre 2 centimetri, impasto morbido, pieghevole, cotto massimo 90 secondi e servito entro 10 minuti dall’uscita dal forno. Un trattato di amore e ossessione gastronomica. Del resto, che questa sia molto più di una pietanza lo testimonia anche il riconoscimento UNESCO, ottenuto nel 2017 grazie proprio all’impegno dell’AVPN.
Non solo una ricetta, ma un patrimonio culturale immateriale dell’umanità. Eppure, non sempre è stato così. Fino a pochi decenni fa, ogni pizzaiolo napoletano custodiva gelosamente la propria ricetta, tramandata di padre in figlio come un segreto di famiglia. Ma negli anni ’80, di fronte all’avanzata di surgelati, fast food e finti impasti napoletani spacciati per autentici, un uomo decise di dire basta: si chiamava Antonio Pace, discendente di una storica famiglia di pizzaioli.
Riunì altri sedici clan pizzaioli e insieme dettarono legge. Così nacque l’AVPN.
Le regole, all’inizio, fecero discutere — la fermentazione dell’impasto fu causa di feroci dispute —, ma nel 1984 il primo disciplinare vide la luce. Nel 1998 l’associazione avviò una collaborazione scientifica con l’Università Parthenope per studiare la pizza dal punto di vista biochimico ed economico, fondando l’Osservatorio Socio-Economico della Pizza Napoletana. Un cenacolo di menti dove ogni anno si discute se aggiornare le regole alla luce delle innovazioni, come i nuovi metodi di raffinazione della farina. Perché sì: la pizza napoletana è fede, ma come ogni fede ogni tanto ama essere messa alla prova.
Lo sa bene Gino Sorbillo, guru del forno e tra i più noti esaminatori AVPN, che nel 2024 ha lanciato una pizza in stile hawaiano con l’ananas. Una provocazione? ''La pizza non si ferma a un certo punto: è in continua evoluzione'', ha spiegato, ricordando che l’arte vera è quella che si rinnova senza tradire sé stessa. Non tutti però l’hanno presa bene. Il giornalista gastronomico Antonio Puzzi, direttore della rivista Pizza e Pasta Italiana, non ha esitato a definirla “una provocazione”. I dipendenti dell’omonima pizzeria Sorbillo a Napoli, racconta la BBC, si sono praticamente rifiutati di servirla.
Eppure anche l’AVPN, oggi, mostra aperture prima impensabili. «Se possiamo migliorare qualcosa, lo cambiamo, quindi siamo molto aperti», ammette Di Porzio. Una svolta epocale si era già verificata nel 2013, quando l’associazione autorizzò — tra lo sgomento dei puristi — l’uso del forno elettrico al posto di quello a legna. Una scelta dettata, più che dal modernismo, dal buon senso visto che in certe parti del mondo trovare legna di quercia campana non è esattamente semplice. Tutto questo rigore — dalle scuole ai controlli, fino agli agenti segreti — ha un effetto collaterale molto preciso: rende la pizza napoletana ancora più desiderabile.
Lo sottolinea Karima Moyer-Nocchi, storica dell’alimentazione presso l’Università di Siena, secondo cui l’AVPN non si limita a proteggere la tradizione: ''La pizza napoletana viene trasformata in un’esperienza trascendentale. Salvaguardano il piatto, ma creano anche un alone di mistero, e ti fanno sentire parte di qualcosa di eterno'', sottolinea alla BBC.
E se qualcuno dubita ancora della sua sacralità, basta ricordare che Domino’s, il colosso americano della pizza industriale, nel 2022 ha dovuto abbandonare l’Italia con la coda tra le gambe. Perché alla fine la pizza napoletana non è la migliore perché è perfetta, ma perché è imperfettamente umana. Perché sbuffa, si gonfia, si macchia, si piega. E forse è proprio nella sua imperfezione, in quell’alone di fumo, in quel bordo non simmetrico, che si nasconde la sua anima: generosa, testarda, e profondamente, orgogliosamente napoletana.