Quando Fernando Dávila aveva otto anni, in Colombia, venne bocciato a un corso di disegno. Il motivo? Continuava a dipingere gli asini di rosso. Non era capriccio, né quella forma di anarchia che a volte attraversa l'infanzia. Era daltonismo. Una parola che racchiude un mondo di confini invisibili, di colori che scivolano l'uno nell'altro senza che si possa fare nulla per trattenerli.
Pittura: gli asini rossi di Fernando Dávila
Oggi Dávila ha settantadue anni ed è un pittore riconosciuto: le sue opere sono passate per le sale di Christie's e Sotheby's e sono state esposte in tre continenti. Dal suo studio in un sobborgo di Miami racconta ad ABC di avere "il lavoro più bello del mondo". Dipinge ogni mattina. Mescola i colori, operazione che per lui conserva qualcosa di alchemico e mai del tutto risolto. "Avere gioia da condividere con il mondo, questa è la mia vera passione", dice. Per quasi trent'anni ha dipinto esclusivamente in bianco e nero. Una scelta obbligata: il daltonismo è una condizione congenita che impedisce di distinguere alcuni colori, rosso e verde innanzitutto, ma anche le loro infinite gradazioni intermedie.
Per Dávila restano opachi anche il rosa, il viola, il turchese, quel giallo-verde che sta sulla soglia tra due mondi cromatici. Non esiste cura. Dalla metà degli anni Ottanta, però, quando viveva a New York, un oculista gli ha fornito un paio di occhiali particolari: una lente trasparente, l'altra sfumata di rosso. Con questi riesce a cogliere le tonalità contrastanti che altrimenti gli sfuggirebbero. Vede quasi due terzi dei colori, contro il quaranta per cento che percepisce senza lenti. Una condizione che l’artista paragona a quella di chi possiede una scatola di cioccolatini ma può assaggiarne solo alcuni. Il desiderio di vedere tutti i colori resta immutato, una fame che non si placa.
"È qualcosa che mi manca nella vita", confida. "Quando qualcuno mi dice: guarda questo fiore, è di un rosa acceso, io voglio farlo. È qualcosa che nasce dal mio cuore con tanta passione. Riesco a sentire la vibrazione del colore". Sentire, non vedere. Forse è proprio in questo scarto che si annida la possibilità dell'arte. Il daltonismo nella sua famiglia è una presenza costante.
Un nonno e alcuni prozii vedevano soltanto in bianco e nero, la madre e le tre sorelle erano daltoniche - condizione assai più rara nelle donne -, così come i due fratelli. Una genealogia cromatica compromessa che non gli ha impedito di costruire una carriera tra Colombia, New York e Florida. Nel 1999 il Congresso colombiano gli ha conferito l'Ordine della Democrazia per il contributo alle arti. I suoi dipinti - figure abbracciate, paesaggi che spesso eleggono il blu a colore fondante - testimoniano che l'arte non richiede una visione perfetta, semmai una visione necessaria. "Penso che il colore sia una delle cose più importanti nella vita", dice. "E soprattutto per me". Una frase che contiene tutto il peso di una mancanza ma anche la determinazione di chi ha scelto di non arrendersi.
In realtà la questione degli artisti daltonici ha attraversato secoli di riflessione estetica. Già nel 1797, pochi anni dopo che John Dalton aveva descritto scientificamente la condizione che avrebbe preso il suo nome, Goethe se ne occupò con quell'avidità conoscitiva che gli era propria. Fece condurre esperimenti di accoppiamento cromatico a un daltonico, con gli acquerelli, nel tentativo di riprodurre i colori come venivano effettivamente percepiti. Arrivò persino a dipingere un paesaggio seguendo le indicazioni di chi vedeva il mondo diversamente.
Era il metodo di Goethe: non teorizzare da lontano, ma sporcarsi le mani, entrare dentro le cose. Kazunori Asada, scienziato e poeta giapponese, ha elaborato una teoria affascinante sul daltonismo di Van Gogh. Secondo Asada, l'artista olandese avrebbe sofferto di una forma di daltonismo che privilegiava i toni del giallo, il che spiegherebbe la presenza ossessiva, quasi maniacale di questo colore nelle sue tele. Asada ha condotto esperimenti con un simulatore che permette di vedere i colori esattamente come li percepiscono i daltonici, utilizzando luce filtrata otticamente.
Attraverso questa sorta di protesi visiva ha osservato il mondo con gli occhi di Van Gogh, traendone conclusioni sulla sua percezione cromatica. Naturalmente esiste anche l'ipotesi che la condizione visiva di Van Gogh fosse acquisita, causata dall'abuso di alcol e assenzio o dall'esposizione prolungata ai pigmenti tossici. La verità, probabilmente, non la conosceremo mai. Resta il fatto che quei gialli continuano a bruciare sulle tele. Gli impressionisti meritano un discorso a parte. Nel 1877 Le Figaro pubblicava recensioni che parlavano di quadri invasi da "un diluvio di crema al pistacchio, vaniglia e ribes", un guazzabuglio incomprensibile se non ammettendo l'incapacità di distinguere forme e colori.
E in effetti diversi pittori impressionisti avevano una visione alterata dei colori, per ragioni diverse. Monet innanzitutto. Le sue serie dello stesso soggetto - il Pont japonais a Giverny, dipinto oltre venti volte nel corso degli anni - mostrano un progressivo ingiallimento e un degrado delle forme. Sintomi di un daltonismo causato da patologie oculari, in particolare dalla cataratta nucleare, nella quale il nucleo del cristallino diventa opaco e ingiallisce. Eppure quelle ninfee, quegli stagni, restano tra le immagini più potenti della modernità pittorica. Anche Ilya Repin, grande maestro russo dell'Ottocento, era daltonico.
Lo testimonia la sua scelta di evitare sistematicamente il verde nelle nature morte, come notò il critico Nikolai Punin. Così come Georgia O'Keeffe, tra le voci più originali dell'arte americana del Novecento, anch'essa daltonica. Una condizione che la spinse a sperimentare con sfumature e combinazioni cromatiche inedite: ne nacquero quelle nature morte, quei paesaggi dai colori violenti e solari ispirati al Sud-Ovest degli Stati Uniti. Oggi la tecnologia offre ai daltonici strumenti impensabili: occhiali correttivi, filtri digitali, simulatori cromatici.
Ma resta centrale la lezione: che l'arte non ha mai chiesto la perfezione, semmai la necessità di uno sguardo. Fernando Dávila che sente la vibrazione del colore. Monet che dipinge ninfee attraverso un cristallino ingiallito. Van Gogh che incendia le tele di giallo. Ci ricordano che vedere non è solo questione di retina e coni, ma di ostinazione, di quella capacità tutta umana di trasformare una mancanza in linguaggio. Gli asini rossi di un bambino colombiano contenevano già tutto questo: l'impossibilità di vedere il mondo come gli altri e la determinazione di dipingerlo ugualmente, a modo proprio. Che è poi, in fondo, l'unica vera definizione di arte che valga la pena ricordare.