Che gli uomini forti amino le note forti, è cosa nota. Ma che le loro scelte musicali finiscano per cozzare clamorosamente con i messaggi che pretendono di veicolare è ormai quasi un genere a sé. L’ultima, e forse più emblematica, arriva dagli Stati Uniti, dove l’amministrazione Trump ha diffuso un video promozionale per raccontare la propria visione del futuro dell’America.
Il paradosso musicale dell’amministrazione Trump
Il montaggio, tutto filtri vintage e orgoglio patriottico, mostra famigliole in estasi dinanzi a parchi nazionali, agenti in divisa che salutano la bandiera americana a cavallo, il monte Rushmore, Statua della Libertà e tutto l’armamentario del mito a stelle e strisce. Il solito spottone in perfetta salsa Trump, insomma. Se non fosse per un dettaglio fragorosamente stonato.
La scelta del sottofondo musicale: This Land Is Your Land di Woody Guthrie. Anzi, la sua versione country firmata da Sam Hunt, apparsa nella colonna sonora di Bright, un film Netflix del 2017 in cui elfi e orchi fanno i poliziotti. Ora, a chi mastica solo superficialmente musica folk americana, potrà sembrare una scelta azzeccata, perché di primo acchito il titolo (Questa terra è la tua terra) suona benissimo in un video che vuol difendere la patria.
Ma chi conosce davvero Woody Guthrie sa che quel brano è tutto fuorché un inno conservatore.
Anzi. “Woody scrive di un’America diversa”, ha ricordato alla CNN lo studioso Will Kaufman, autore di Woody Guthrie, American Radical. “Scrive di poliziotti, vigilanti, filo spinato e file per il pane”.
Guthrie, fervente socialista e anticapitalista, compose quella canzone nel 1940 come risposta sdegnata a “God Bless America”, che gli sembrava cieco patriottismo zuccheroso. Il testo originale includeva strofe in cui si criticava la fame dilagante e la proprietà privata. Strofe che, guarda caso, scomparvero presto dalle versioni scolastiche. E che oggi nessuno si sogna di usare in un video istituzionale.
Ma che la scelta non sia stata proprio pensata a fondo, lo ha confermato (indirettamente) anche la famiglia Guthrie, che in un’e-mail inviata alla CNN ha commentato con una dose di ironia più che meritata: “Caspita, il Dipartimento per la Sicurezza Interna ha davvero sbagliato! Se vogliono farlo bene, dovrebbero guardare l’esibizione di Pete Seeger e Bruce Springsteen al concerto inaugurale di Obama. Quello è il punto di riferimento. Quindi, ora sembra che dovremo cantare tutti insieme This Land Is Your Land, così potranno reimpararla e farla bene”.
Dal canto suo, il Dipartimento per la Sicurezza Interna, interpellato dalla CNN sulla palese contraddizione, ha risposto con tono risentito attraverso la vicesegretaria Tricia McLaughlin: “Amare l’America potrebbe essere un concetto radicale o estraneo alla CNN, in realtà siamo abbastanza convinti che lo sia”.
Una risposta che non risolve il nodo centrale: l’appropriazione di un brano profondamente critico verso lo stesso sistema che oggi lo impugna come manifesto. Basti ricordare che sulla chitarra di Guthrie campeggiava la scritta “This Machine Kills Fascists”, e che nei suoi scritti il cantautore non risparmiava critiche nemmeno al padre di Donald Trump, accusato di politiche abitative discriminatorie.
Nora Guthrie, figlia di Woody, in un’intervista al New York Times già nel 2016 aveva dichiarato: “Il nostro controllo su questa canzone non ha nulla a che fare con il guadagno economico. Ha a che fare con la protezione da Donald Trump, dal Ku Klux Klan, da tutte le forze del male là fuori”. Eppure, in un tragico déjà-vu, “This Land Is Your Land” viene ripescata, edulcorata, privandola di ogni connotazione politica, e rispedita nel circuito istituzionale come sigla di un’America blindata, più che condivisa.
Ma il paradosso non è solo americano. Anche in Italia abbiamo assistito a stonature memorabili, e non solo in senso metaforico. Una su tutte, quando Giorgia Meloni festeggiò la vittoria elettorale del 2022 sulle note di A mano a mano di Rino Gaetano. Una scelta che fece sobbalzare non pochi osservatori, al punto che la famiglia Gaetano intervenne pubblicamente per dissociarsi dall’uso del brano. Un piccolo "cazziatone" che passò quasi inosservato, ma che dice molto su come certa politica si senta legittimata a pescare ovunque, anche laddove i testi vanno in tutt’altra direzione rispetto ai proclami di partito.
Non è andata meglio a Matteo Salvini, che tempo fa pubblicò un video in cui si dilettava a canticchiare – stonando, va detto con onestà – Il pescatore di Fabrizio De André. Un’eresia simbolica, se si pensa che quel brano racconta di un uomo che, senza giudicare, divide il pane e versa vino a un fuggitivo. “Per chi diceva ho sete e ho fame”, scriveva De André.
Parole difficili da accostare a chi ha fatto della chiusura dei porti un cavallo di battaglia.
Quel pescatore lì, verrebbe da dire, un politico così non lo avrebbe nemmeno guardato in faccia. Ma non è finita. Sempre Meloni e Salvini, in un memorabile siparietto da karaoke, cantarono insieme La canzone di Marinella, ancora una volta di De André. Una scena che avrebbe potuto risultare folkloristica, se non fosse per la totale dissonanza tra l’anima libertaria del cantautore genovese e i proclami sovranisti dei due leader.
La domanda, a questo punto, sorge spontanea: perché i sovranisti, che si autoproclamano difensori della tradizione, dell’identità e della patria, finiscono sempre per attingere a un repertorio musicale che parla tutt’altro linguaggio?
Da Woody Guthrie a De André, passando per Rino Gaetano, Springsteen o Pete Seeger, la colonna sonora scelta dalla destra più identitaria sembra attingere, paradossalmente, solo da chi ha sempre cantato gli ultimi. Come se, quando si tratta di raccontare emozioni autentiche, visioni collettive o semplicemente intonare qualcosa che tocchi il cuore, i paladini del “prima la patria” restassero improvvisamente muti. Senza parole proprie, senza storie vere, senza quell’immaginario condiviso che è l’anima stessa dell’arte: popolare, inclusiva, disordinata e irriducibilmente libera. Quella che parla a tutti: i migranti, i poveri, i diversi. Quelli che costruiscono ponti, e non confini.