Cinema & Co.
Nel silenzio ovattato che solo le grandi anime sanno abitare, se n’è andata Lea Massari. Nessun clamore, nessun addio pubblico. Solo la discrezione di un ultimo saluto, custodito nella penombra della cattedrale di Sutri. Una notizia, quella della sua scomparsa, giunta solo oggi a funerali avvenuti, nel rispetto di quel riserbo che fu l’essenza stessa della sua esistenza. Tra pochi giorni, e più precisamente il 30 giugno, avrebbe compiuto 92 anni. Da più di trenta, si era ritirata dal mondo dello spettacolo e da ogni luce che non fosse naturale.
Addio a Lea Massari, la bellezza segreta del cinema italiano
Nata Anna Maria Massatani, Lea Massari non fu mai una diva nel senso consueto del termine. Non amava mostrarsi, non cercava la ribalta. Eppure la ribalta non smise mai di cercarla.
C’era in lei una bellezza assorta, mai ostentata. Un fascino che non si offriva, ma che si scopriva, come certi paesaggi velati di nebbia o una pagina scritta in una lingua antica. Il suo volto, segnato da un piccolo neo sulla fronte, era scolpito in una grazia senza tempo: aristocratica, ma mai fredda; intensa, ma mai artefatta. Le gambe affusolate, la voce roca e profonda, la naturalezza con cui attraversava i ruoli e la vita, l’hanno resa una figura indelebile nel firmamento del cinema europeo.
Era nata a Roma, nel quartiere di Monteverde Vecchio, e cresciuta tra i Parioli, Prati e poi in giro per l’Europa, seguendo il padre ingegnere, tra Spagna, Francia e Svizzera.
Studiò architettura, ma la sua vera architettura fu quella interiore, con cui costruì un personaggio unico: quello della donna moderna, consapevole, fragile e fiera. Dopo un primo impiego come modella, fu Mario Monicelli a scorgere in lei qualcosa di più, scritturandola nel 1954 per Proibito.
Un’intuizione felice che segnò l’inizio di una carriera luminosa. Mai prigioniera del proprio tempo, Lea Massari fu protagonista del nostro cinema, sì, ma anche presenza amatissima in Francia, dove recitò con naturalezza nella lingua di Molière, ammaliando registi e spettatori con la sua innata eleganza.
In Italia, però, le venne tributato un riconoscimento intermittente, a volte distratto. Eppure, bastano pochi titoli a scolpirne la grandezza: L’avventura di Antonioni (1960), dove è la donna che scompare, enigma e simbolo a un tempo; Il colosso di Rodi di Sergio Leone; Una vita difficile di Dino Risi, accanto a un Sordi commovente; La prima notte di quiete, dove sedusse la cinepresa e Alain Delon con eguale intensità.
Negli anni, raccolse premi prestigiosi: il David di Donatello, i Nastri d’Argento. Ma più ancora raccolse ammirazione silenziosa, affetto puro, e un’aura da cui non volle mai separarsi: quella dell’attrice che scelse l’arte e non il glamour, il pudore e non l’esibizione.
Indimenticabile fu nella tv d’antan: I Promessi Sposi, I fratelli Karamazov, Anna Karenina.
E ancora, l’ultima apparizione nel 1990 in Viaggio d’amore con Omar Sharif, poi il silenzio. Non per disinteresse, ma per scelta: quella di una donna che seppe smettere quando il rumore del mondo divenne più assordante dell’intimità.
Ma c’è un’altra Lea Massari, quella che pochi conoscono, e che pure merita la stessa luce. È la Massari animalista, la donna che, dopo un passato da cacciatrice, sentì il richiamo della compassione e mutò pelle. Non fu un gesto di facciata, ma un’autentica conversione dell’anima: si dedicò con passione alla difesa degli animali, lottò contro la vivisezione, accolse cani e gatti nella sua casa sarda, dove visse in silenziosa comunione con la natura. Era la stessa sensibilità che traspariva nei suoi personaggi, nelle pause, negli sguardi, nella recitazione mai urlata.
Un sentire profondo, che la rese non solo attrice ma anche umanista, donna del pensiero e dell’anima. Non amava parlare di sé, né concedersi alle interviste. I volumi più autorevoli sul cinema italiano la citano appena, senza un suo virgolettato, quasi fosse una presenza sfuggente, una figura evanescente. Ma la verità è che Lea Massari era troppo sofisticata per un sistema mediatico sempre più vorace, troppo discreta per i riflettori, troppo vera per la finzione della notorietà. Fu anche Rosetta nel Rugantino originale del 1962, accanto a Nino Manfredi, Aldo Fabrizi e Bice Valori.
Simbolo della romanità più autentica, fu capace di portare sul palcoscenico quel misto di ironia e grazia, malinconia e fierezza, che solo la vera Roma sa esprimere. Il tempo le ha reso giustizia, se non con i riflettori, con la memoria. Perché oggi, nel ricordarla, il cinema italiano, e non solo, la ricorda come una delle sue figure più rare. Non solo per la bellezza, che fu tangibile ma mai volgare, eterea ma concreta. Non solo per l’eleganza, che era fatta di gesti, sguardi, silenzi. Ma per la coerenza con cui ha vissuto: schiva, intensa, lontana dai riflettori come da ogni compromesso.
Una non diva, che è stata molto di più: un’attrice vera, una donna che ha camminato nel cinema e nella vita con passo lieve ma deciso, senza mai chiedere nulla in cambio. E forse proprio per questo, oggi, il suo ricordo brilla più forte. Come una stella che, pur nascosta dietro le nuvole, non ha mai smesso di esserci.