Nell'epoca in cui persino la morte soccombe al capitalismo digitale, ecco materializzata l'ennesima chimera tecnologica: far cantare i cadaveri. Non parliamo di necrofilia artistica, beninteso, ma di qualcosa di infinitamente più raffinato e commercialmente appetibile. L'industria dell'intrattenimento ha dimostrato che il trapasso non rappresenta più un ostacolo insormontabile alla produttività artistica.
L’algoritmo dell’eternità
E così Whitney Houston, leggenda della musica pop-soul prematuramente scomparsa nel 2012, ha calcato nuovamente i palcoscenici americani attraverso l'ausilio di sofisticati algoritmi che hanno promesso di resuscitare ciò che la natura aveva definitivamente archiviato. Il debutto di questo esperimento, battezzato "The Voice of Whitney", si è consumato sabato e domenica scorsi alla Cincinnati Music Hall, inaugurando un tour che toccherà altre sei città americane. Uno spettacolo di prestidigitazione digitale dove orchestre sinfoniche dal vivo hanno fatto da controcanto a una presenza che di vitale conservava soltanto l'eco elettronico.
La tecnologia protagonista di questo esperimento di tanatologia applicata è riuscita a scomporre e ricomporre le frequenze vocali di Whitney Houston con una precisione che rasenta il miracoloso, se non fosse intrinsecamente blasfemo. Gli ingegneri del suono sono diventati moderni Frankestein, capaci di suturare note e vibrazioni per rianimare ciò che dovrebbe riposare in pace nelle discoteche della memoria collettiva. L'operazione ha promesso di offrire un'esperienza "quasi da studio", come se l'autenticità potesse essere quantificata in decibel e la genuinità emotiva fosse una questione di equalizzazione.
Il paradosso è servito: la voce "autentica" della Houston prodotta artificialmente, un'intimità costruita a tavolino, un'emozione programmata utilizzando le registrazioni originali dei suoi più grandi successi come "I Will Always Love You" e "I Wanna Dance with Somebody".
Non si è trattato del primo tentativo di violazione dell'oltretomba artistico di Whitney Houston. Il precedente più clamoroso risale al 2012, quando l'ologramma di Tupac Shakur, morto nel 1996, si materializzò sul palco del Coachella per esibirsi con Snoop Dogg e Dr. Dre, lasciando il pubblico a bocca aperta. Due anni dopo fu la volta di Michael Jackson, resuscitato virtualmente per i Billboard Music Awards del 2014.
Il fenomeno si è esteso ad altri giganti della musica: Frank Zappa, Amy Winehouse e la stessa Houston hanno calcato palcoscenici postumi grazie a proiezioni olografiche. Il nuovo approccio si è raffinato: meno pirotecnica visiva, più seduzione auditiva. Come se l'inganno diventasse più accettabile quando privato della sua componente spettacolare più ovvia. Il target dichiarato sono le generazioni più giovani, quelle che non hanno mai assistito dal vivo alle performance dell'artista morta a soli 48 anni.
Un'operazione di marketing mascherata da filantropia culturale, che ha trasformato l'educazione musicale in un'operazione di necrofilia commerciale dove la morte, ultimo tabù di un'epoca che ha mercificato ogni aspetto dell'esistenza, viene finalmente addomesticata e trasformata in opportunità di business. Non più limite invalicabile, ma semplice ostacolo tecnico da superare con l'ingegno e il software appropriato.
Stiamo andando, insomma, verso la nascita di una nuova, inquietante, forma di immortalità: quella algoritmica. Una promessa di eternità che non passa attraverso l'opera e la sua capacità di sopravvivere nel tempo, ma attraverso la manipolazione tecnologica della presenza fisica. È il trionfo dell'simulacro sull'originale, dell'apparenza sulla sostanza. Perché se è vero che la tecnologia può ricreare una voce, non potrà mai restituirci l'unicità irripetibile di un momento vissuto. E forse, proprio in questa impossibilità, risiede l'ultima, fragile dignità dell'essere umano.