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Harvard rinuncia ai dagherrotipi degli schiavi, restituendoli alla memoria collettiva

Redazione
 
Harvard rinuncia ai dagherrotipi degli schiavi, restituendoli alla memoria collettiva

Dopo sei anni di una battaglia legale tanto simbolica quanto dolorosa, l’Università di Harvard ha finalmente deciso di rinunciare alla proprietà di un gruppo di fotografie che ritraggono un padre e una figlia schiavizzati nel 1850, costretti a posare senza vestiti per uno studio pseudoscientifico finalizzato a dimostrare, con pregiudizio e crudeltà, l’inferiorità della “razza nera”.

Harvard rinuncia ai dagherrotipi degli schiavi, restituendoli alla memoria collettiva

Una decisione attesa, eppure tardiva, che solleva interrogativi sul ruolo delle istituzioni accademiche nella perpetuazione di pratiche razziste e sulla responsabilità della memoria. L’accordo, reso noto dagli avvocati di Tamara Lanier – discendente diretta di Renty Taylor, l’uomo ritratto nelle immagini assieme alla figlia Delia – non prevede il trasferimento delle fotografie alla famiglia, come inizialmente richiesto, ma la loro consegna all’International African American Museum di Charleston, in South Carolina.

Un compromesso, forse, ma anche un passo concreto verso il riconoscimento storico. “Harvard ha avuto un ruolo nel capitolo più oscuro della storia americana”, ha dichiarato Lanier in una nota, sottolineando che “è un piccolo passo nella giusta direzione verso il pieno riconoscimento di quella storia e l’impegno a porvi rimedio”.

Il caso ha scosso l’opinione pubblica non solo per il contenuto scioccante delle immagini – dagherrotipi in cui due esseri umani sono ridotti a oggetti di studio, privati di dignità, costretti a mostrarsi nudi –, ma anche per la lentezza con cui una delle università più prestigiose del mondo ha reagito.

Le fotografie, scattate dal professore svizzero Louis Agassiz, figura influente del pensiero razziale ottocentesco, erano conservate al Peabody Museum of Archaeology and Ethnology, all’interno del campus di Harvard. E lì sono rimaste, per decenni, nel silenzio di archivi che hanno custodito più l’eredità del potere che la verità delle vittime. Lanier aveva avviato la causa nel 2019, chiedendo che Harvard riconoscesse la violenza implicita nell’atto stesso di detenere e mostrare quelle immagini. Dopo un iniziale rigetto da parte del tribunale del Massachusetts, la Corte Suprema dello Stato ha riaperto il caso nel 2022.

Nella sentenza, il giudice Scott Kafker ha criticato aspramente l’università per aver trattato con superficialità le richieste della querelante: “Harvard ha respinto svogliatamente le affermazioni di Lanier sul legame familiare e ha ignorato le sue domande su come fossero state utilizzate le immagini”, ha scritto Kafker, come riportato da Reuters.

In particolare, ha sottolineato che l’ateneo aveva usato l’immagine di Renty Taylor persino sulla copertina di un libro, senza alcun coinvolgimento dei discendenti. Il giudice non ha usato mezzi termini per definire l’origine delle immagini: “orribile”. E ha riconosciuto che Harvard “ha delle responsabilità nei confronti dei discendenti degli individui costretti a farsi immortalare seminudi nei dagherrotipi”.

Una frase che, in sé, riassume il cuore del problema: la responsabilità morale e storica delle istituzioni quando diventano custodi, volontarie o meno, dell’umiliazione inflitta a generazioni intere. Dal canto suo, Harvard ha cercato di ricollocarsi nel giusto binario della giustizia storica. In una dichiarazione, l’università ha sostenuto di essere da tempo intenzionata a trovare una nuova collocazione per le immagini, una che ne garantisse il rispetto e la contestualizzazione adeguata.

“Questo accordo ci consente ora di procedere verso questo obiettivo”, ha dichiarato l’ateneo. Certo, fa riflettere che una decisione tanto elementare – restituire dignità a chi ne è stato privato – abbia richiesto sei anni di udienze, appelli e pressioni mediatiche. E fa ancora più rumore il silenzio che per troppo tempo ha avvolto queste immagini, esposte a volte con il pretesto della didattica, senza però interrogarsi su cosa significhi mostrare la sofferenza di esseri umani ridotti a oggetti, senza consenso, senza voce. Le fotografie di Renty e Delia non sono semplici documenti d’epoca.

Sono testimonianze crude di un’epoca in cui la scienza si è fatta ancella del razzismo, e l’università – tempio del sapere – ha talvolta partecipato alla costruzione ideologica della schiavitù. Non basta consegnarle a un museo: è necessario, come suggerisce Lanier, “porre rimedio”. Una vicenda, questa, che si inserisce in un contesto più ampio di riconsiderazione critica delle istituzioni accademiche, molte delle quali stanno oggi facendo i conti con il proprio passato coloniale e schiavista. E che, lungi dall’essere un caso isolato, rappresenta una svolta simbolica nel dibattito su chi abbia il diritto di possedere – e dunque raccontare – la memoria di chi ha sofferto.

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