Ridurre la guerra commerciale scatenata da Donald Trump al solo fronte delle tariffe rischia di essere sbagliato, perché, se i dazi che la Casa Bianca ha imposto alla quasi totalità delle merci importate hanno mutato il commercio globale, hanno anche cambiato il panorama del fisco ''made in Usa''.
L'analisi: la guerra delle tariffe di Trump ha cambiato il quadro fiscale americano
Per decenni le ricadute dei tassi sono state una fonte marginale di reddito, appena lo 0,3% del PIL, ma oggi diventano un fiume di miliardi che confluiscono nelle casse del tesoro. In proposito è molto interessante un rapporto della spagnola CaixaBank Research, secondo cui fino a luglio di quest'anno in tariffe sono stati incassati 114.860 milioni di dollari, ovvero sia lo 0,4% del PIL, superando le le entrate sia nel 2023 che nel 2024.
Se questo trend fosse confermato anche nei prossimi mesi da qui a fine anno, il 2025 potrebbe chiudersi con l'1,1% del PIL raccolto in questo modo, toccando il massimo storico. Anche se bisogna comunque aspettare cosa dirà la magistratura americana sulla raffica di aumenti dei dazi decisi da Trump, una questione che, innescata da decisioni di giudici federali, vedrà alla fine pronunciarsi la Corte Suprema, davanti alla quale la Casa Bianca ha deciso di andare, fidando sul fatto (politico) che la sua maggioranza - sei su nove - è conservatrice.
Il maggiore flusso di entrate è reso evidente dal fatto che Trump ha disposto dazi che, in media, toccano il 17%, quando prima era al 2%. Una raffica di aumenti che, sebbene vari per Paese e per tipologia di merci sulle quali sono imposti, ha coinvolto tutti i partner commerciali degli Stati Uniti, tra annunci, retromarce, minacce o vere e proprie rappresaglie.
Valgano, come esempio, la tariffa universale del 10%, la sovrattassa del 50% su acciaio e alluminio, il 25% sulle automobili e il 45% sui prodotti provenienti dalla Cina. Il quadro è quindi completato da tasse bilaterali, come quelle che hanno colpito il Canada e il Messico (rispettivamente il 35 e il 25 per cento, nonostante il trattato di libero scambio); l'Unione Europa e Giappone (al 15%, con alcuni Paesi dell'Ue che hanno accettato l'accordo, sia pure con critiche e perplessità).
I dazi maggiori hanno colpito il Brasile (50%, punizione imposta anche per motivi politici, come il processo, contestato da Trump, che ha visto al condanna dell'ex presidente Bolsonaro, accusato di un tentato golpe) e la Svizzera (39%).
A sentire la Casa Bianca la nuova politica tariffaria ha tre ''motivazioni'': proteggere l'industria nazionale (chiedendo a quelle straniere di produrre sul suolo americano), ridurre il deficit commerciale (anche se i numeri che Trump tira fuori ad ogni occasione sono smentite dai dati ufficiali) e irrobustire gli incassi dell'erario.
Il tutto sullo sfondo di un debito che aumenta a dismisura e che sarà alimentato anche dagli effetti della nuova legge fiscale, fortemente voluta da Trump e che qualcuno in casa repubblicana ha approvato, al Congresso, obtorto collo, per disciplina di partito e per non vedersi travolgere dalle possibili ripercussioni quando si tratterà di ricandidarsi nelle elezioni di mid-term.
L'analisi di CaixaBank getta ombre sull'efficacia delle scelte dell'inquilino della Casa Bianca. Perché, ad avviso dell'istituto di ricerca, "è difficile frenare le importazioni per difendere la produzione locale e, allo stesso tempo, dipendere da esse come fonte di entrate fiscali". La spiegazione è semplicemente spietata: se i nuovi dazi vogliono scoraggiare l'arrivo di merci straniere per favorire la produzione locale, scende di conseguenza la base dalla quale drenare entrate con le tariffe.
I dati sembrano riflettere una situazione ancora lontana dal potere essere considerata foriera di certezze. Infatti, dopo che nel primo trimestre le importazioni sono state condizionate dal fatto che, per evitare i dazi, le aziende statunitensi hanno anticipato gli acquisti per eludere le nuove tasse, ad aprile c'è stato un calo del 20%, e da allora gli acquisti esteri si sono stabilizzati intorno ai 270 miliardi di dollari al mese, al di sotto della media del 2024.
L'andamento potrebbe dare come concreta la possibilità di raggiungere l'1% del PIL in entrate tariffarie, a patto che le importazioni restino al livello odierno. Ma resta la variabile delle decisioni della magistratura che, con una corte d'appello, ha sancito che l'imposizione di nuovi dazi è competenza del Congresso e, quindi, di riflesso, Trump nel deciderli è andato oltre alle prerogative presidenziali. E se dovessero venire meno i gettiti delle tasse, la riforma fiscale sostenuta da Trump aprirebbe una voragine nel debito pubblico.
Quale potrebbe essere il prossimo scenario?
Prima di addentrarsi in analisi e previsioni, bisogna considerare che, come accaduto in passato, come nel caso delle merci cinesi nel 2018, l'imposizione di nuovi dazi finisce per riverberarsi sui prezzi dei beni importati, poiché le aziende trasferiranno sui consumatori i costi maggiori. E questo potrebbe condizionare le importazioni che dipendono anche dalle scelte del fruitore finale, che potrebbe cambiare non in base al mutamento dei gusti, ma della convenienza.
Il rapporto di CaixaBank Research fornisce ulteriori elementi di riflessione: un aumento dell'1% del prezzo di un bene può ridurne la domanda tra l'1% e il 5%; il dollaro quest'anno si è deprezzato del 10% rispetto ai suoi principali, rendendo le importazioni ancora più costose, colpendo la domanda; l'economia statunitense sta mostrando segni di raffreddamento: il Pil, a + 2,8% nel 2024, potrebbe crescere solo dell'1,3% nel 2025 e nel 2026, secondo i principali analisti.