Se guardassero i risultati della votazione che ha confermato Gabriele Gravina come presidente della FIGC, i nordcoreani avrebbero un moto di invidia, perché nemmeno Kim Jon-Un, l'uomo che gioca con i razzi, è forse mai riuscito a tanto, considerato che, al nord del 38/mo parallelo, non è che si mangi pane e democrazia.
Gravina l'highlander: resta alla guida della FIGC con una maggioranza che nemmeno Kim Jong-Un
Eppure è accaduto e Gabriele Gravina, da Castellaneta, è riuscito nell'ennesimo miracolo: tornare in sella alla Federazione mettendo in fila il terzo mandato. Cosa che fa pensare che questo ennesimo trofeo personale sia frutto di successi del pallone azzurro, di una accresciuta credibilità in campo internazionale e magari anche di altro.
Non è esattamente così perché i nostri successi internazionali sono abbastanza datati e quelli più recenti si devono alle nostre rappresentative giovanili che però, a differenza di quel che accade all'estero, non diventano il naturale serbatoio della nazionale maggiore.
Insomma, l'ennesimo mistero di un movimento che vede nella serie maggiore l'immagine plastica di come ormai il calcio italiano non è più cosa nostra (nella interpretazione più innocente del termine), perché la maggior parte delle società sono in mano straniera, siano gruppi, fondi o singoli investitori.
Che, mancando della spinta emozionale del tifo (quello dei Moratti, dei Sensi, degli Agnelli, tanto per citare), sono arrivati in Italia per fare profitto. Magari spendendo una vagonata di soldi all'inizio, per poi sperare di guadagnarci.
Non è una cosa di questi giorni, perché va avanti da tempo. Ma la Federazione, che rappresenta il movimento e non i club, cosa ha fatto per rendere il prodotto Italia più appetibile?
Poco, e in alcuni specifici settori nulla.
Eppure Gravina - sebbene da solo candidato: ma possibile che non sia stato possibile raccattarne uno, almeno di facciata? - ha vinto e stravinto, perché raccogliere il 98,68% dei voti (cioè 481,084 su 487,500) significa che solo qualche ultimo giapponese ha osato opporvisi.
Lui, Gravina, ha scatenato una mozione degli affetti, rivolgendosi alla platea e annunciando che "dobbiamo continuare il nostro percorso, centrare gli obiettivi di cui il calcio ha veramente bisogno".
E quindi, di cosa il calcio ha veramente bisogno?
Posto che alcuni problemi sono, per definizione, irrisolvibili (come le critiche alla classe arbitrale, che variano settimanalmente, a seconda di chi ritiene di avere subito un torno), forse su altri si potrebbe cominciare a lavorare, come la necessità che si trovi una contromisura agli effetti della alla legge Bosman e alla liberalizzazione dell'ingaggio di calciatori provenienti da altre federazioni (europee e no), che ormai per molti club sono la quasi totalità. Una cosa che neutralizza la funzione dei vivai, in cui sempre più numerosi sono ragazzi ingaggiati in giro per il mondo.
Certo non si può violare le norme comunitarie, ma cominciare a muoversi per indurre i club a soluzioni non autarchiche, ma almeno rispettose dei calciatori italiani, non sarebbe male.
Poi è il campo a decidere, ma tentarci sarebbe una bestemmia?
Lui, Gravina, sembra fiducioso e, per dare una pennellata di aulica prosa, ha citato Henry Ford (''Mettersi insieme un inizio, rimanere insieme un progresso, lavorare insieme un successo"), forse sorvolando per senso pratico il fatto che l'industriale americano pronunciò quella frase dopo e non prima di avere ottenuto i risultati che tutti conoscono, non quando - è è la terza volta - si intraprende un mandato. Sul quale si staglia l'ombra lunga di una possibile Caporetto, perché se la Nazionale non dovesse qualificarsi ai Mondiale del prossimo anno, le conseguenze dovrebbero essere inevitabili.
Almeno, in un mondo normale, che non è comunque quello dell'highlander Gravina, che sopravvive a tutto.